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25 apr 2021

ALBUM METAL PINKFLOYDIANI: "NIGHTTIME BIRDS", THE GATHERING (1997)


Cosa vuol dire "pinkfloydiano" quando si intende definire un determinato sound? Forse con il tempo si è teso a mitizzare questo aggettivo, riconoscendo ai Pink Floyd caratteristiche universali che in verità sarebbero attribuibili anche ad altre entità musicali. Cosicché, per una evidente forzatura, è divenuto "pinkfloydiano" tutto ciò che è maestoso, dilatato, sognante. Doppio errore, dato che in questo modo si va a semplificare la stessa storia dei Pink Floyd, che, come si è visto, è stata caratterizzata dall' intrecciarsi di almeno tre diverse dimensioni: la psichedelia visionaria e stralunata di Syd Barrett, le rigorose costruzioni concettuali di Roger Waters, la monumentalità del suono elegante e magniloquente dei sodali David Gilmour e Richard Wright

A quest'ultima accezione appartengono indubbiamente gli olandesi The Gathering, di cui, per la nostra rassegna sul "metal pinkfloydiano", andiamo a considerare "Nighttime Birds", sublime crocevia fra il gothic degli esordi e le sperimentazioni che condurranno la band al di fuori del metal stesso... 

2007: Fine del viaggio...

I Gathering avrebbero concluso la loro entusiasmante avventura con Anneke Van Giersbergen nel 2007, anno in cui la cantante decise di abbandonare la band per percorre altre vie artistiche. Il loro ultimo album insieme, “Home” (2006), aveva ormai veramente poco a che fare con il metal, tanto che i Nostri avrebbero coniato l’etichetta “trip rock”, volta a descrivere una musica che evocasse immagini, che portasse “altrove” l’ascoltatore. 

La componente melodica avrebbe mantenuto una sua rilevanza nella ricetta degli olandesi, autori di un riuscito mix di elementi che si era modellato nella tripletta di album precedenti. Se con “How to Measure a Planet?” (1998) la band intraprese un viaggio onirico che la spinse oltre i confini della psichedelia spaziale (si pensi alla quasi mezzora di durata della allucinante title-track), con il successivo “If_Then_Else” (2000) il tiro fu aggiustato in direzione di un rock alternativo più diretto e semplice nel concepimento. E se l’altrettanto ottimo “Souvenirs” (2003) rappresentava l'approdo ad una maturità autoriale che assumeva i contorni dell’elettronica, il già menzionato “Home” consolidava quelle stesse intuizioni, istituzionalizzando l'idea di trip-rock di cui si parlava sopra: un genere oramai non più riconducibile alle varie influenze, che sono molte e mutuate da mondi sonori lontanissimi. 

In tutto questo il nome dei Pink Floyd, motore propulsore primo per le sperimentazioni della band, è andato in parte a sbiadirsi, ma niente toglie che questo stesso nome avesse ricoperto un ruolo fondamentale nella evoluzione della band dalla dimensione metal a quella più propriamente rock. Un’influenza che si avverte molto bene nel passaggio da “Nighttime Birds” e il già citato “How to Measure a Planet?”, gli album "più pinkfloydiani" della band. Se quest'ultimo si è meritato, non a caso, un posto d'onore nella nostra classifica dei migliori album non metal rilasciati da artisti (un tempo) metal, il primo sarà invece l'oggetto delle nostre dissertazioni odierne. 

Anno 1997: “Nighttime Birds” 

Già “Mandylion” si discostava da molti dei cliché del gothic metal dell’epoca (correva l'anno 1995), prendendo le distanze tanto delle recrudescenze del metal estremo, quando dalle atmosfere asfissianti del doom. Nella sua vocazione malinconica, “Mandylion” era un album vivace, dinamico, ricco di idee e spunti progressivi, grazie ad un ensamble di musicisti affiatati e all’incredibile voce della new entry Anneke Van Giersbergen, vera marcia in più per la band olandese. Ogni brano di quell’album meriterebbe l’appellativo di capolavoro, ma in questa sede vorremmo citarne uno in particolare: “Sand & Mercury”. Certamente non la traccia più nota della band, essa è una imponente suite di quasi dieci minuti, prevalentemente strumentale, di cui segnaliamo, dopo un intenso intermezzo atmosferico, l'esplosione nel finale di trascinanti chitarre gilmouriane: primo pizzico di “pinkfloydesimo” da cui muoveranno le energie creative messe in campo nel lavoro successivo.

Nighttime Birds” è un album ancora ascrivibile alla (pur vasta) fenomenologia gothic metal, sebbene, come il predecessore, esso tenda a distaccarsi dalla comfort zone offerta dal genere per svilupparsi in direzione melodica, con umori meno tesi ed un sound più dilatato, espanso, disteso. Se volessimo applicare quella semplificazione concettuale che abbiamo menzionato in principio, potremmo dire che qui i Gathering diventano “pinkfloydiani”. 

Il basso rotondo e corposo di Hugo Prinsen Geerligs si fa carezzevole, per imprimere profondità ai frequenti passaggi atmosferici. Hans Rutten, che era stato un batterista estremamente dinamico, decide di fare un passo indietro, semplificare le trame ed assumere un passo languido, al fine di supportare la propensione melodica dell'album ed esaltare l'operato dei compagni. Su queste basi si innestano le chitarre di René Rutten e Jelmer Wiersma (qui alla sua ultima apparizione) e le tastiere di Frank Boeijen: uno spiegamento di forze che, grazie al supporto di suoni potenti e cristallini, genera visioni come l’accoppiata Gilmour-Wright aveva saputo garantire nel “sound totale” dei Pink Floyd. 

Di pinkfloydiano vi è poi il “flusso”, l’idea che i brani compongano un unico viaggio (quando ancora il termine trip-rock non era stato coniato), fra onirici soundscape ed elaborati intrecci di chitarre a supportare il canto dispensatore di emozioni indicibili: se infatti nell’album precedente Anneke aveva “solo” cantato, adesso la sua presenza si percepisce anche in sede di scrittura, in composizioni che sembrano essere concepite appositamente per la sua splendida voce. Affatto secondario è il contributo del produttore Waldermar Soryctha, il cui operato ci riporta a certi passaggi del capolavoro dei Tiamat “Wildhoney”, ove egli sedeva in cabina di regia. 

I riff rocciosi che aprono la bellissima openerThe Most Surfaces” si fregiano delle "note lunghe" di una chitarra solista che spalanca nella mente dell'ascoltatore visuali su paesaggi mozzafiato; gli accordi poderosi che accompagnano il ritornello della drammatica “Confusion” ben si amalgamano ad intrecci di chitarre arpeggiate e tastiere, cesellati con estrema perizia; “The May Song”, attraversata da un organo che sembra uscita dalle mani di Wright, arriva al momento giusto per stemperare la tensione, grazie ad una leggiadria che lambisce i confini del pop (nel senso nobile del termine). 

Tutto scorre in questa opera che sa alternare pieni e vuoti con estremo equilibrio e che vede nella cura degli arrangiamenti un suo indiscutibile punto di forza. I Pink Floyd affiorano in un’altra magistrale accoppiata di tracce, “The Earth is My Witness” e “New Moon, Different Day”, entrambe dominate da saliscendi emotivi che tolgono il respiro, cavalcati dalle energiche corde vocali della Giersbergen. 

Vi è poi un trittico di brani che, concatenati fra loro, compongono un capolavoro nel capolavoro. “Third Chance” è l’episodio più ritmato del lotto, una improvvisa botta di energia che conduce ad uno dei momenti topici dell'album: l’esplosione fragorosa di chitarre e tastiere con cui si apre l'epica “Kevin’s Telescope”, graditissimo rigurgito gothic-doom che ci riporta al passato della band, ma solo per un attimo, visto che il brano si cala nuovamente nelle vesti della ballata (nemmeno tre minuti e mezzo per certificare in modo inequivocabile la grandezza del combo olandese). Il brano confluisce armoniosamente nell’incipit di organo e percussioni della title-track, la traccia più lunga (sette minuti), la quale si dipana lungo uno schema in crescendo destinato a compiersi nel vibrante ritornello e in arabeschi di chitarra che ricordano da vicino l’estro di David Gilmour. Il tutto trova degna conclusione in un gioiello di introspezione come “Shrink”. 

In “Nighttime Birds” non abbiamo citazioni spudorate al repertorio dei Pink Floyd, perché, rispetto a molti loro colleghi, i Gathering hanno sempre dimostrato la capacità di rielaborare con personalità le influenze più disparate: caratteristica che ha reso la band olandese credibile anche nel suo itinerario al di fuori del metal, con album che, a prescindere dalle vesti indossate di volta  in volta, hanno sempre messo le emozioni al centro di tutto. Se vi pare poco...