"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

26 mar 2023

PRIMA DEL FUNERAL DOOM: PARADISE LOST



Meno dieci: Paradise Lost - "Lost Paradise" (1990)

La rassegna sul funeral doom è appena terminata ed ecco che subito ritorniamo sul luogo del delitto, arma fumante, corpo del cadavere ancora caldo. Lo avevamo detto, del resto, che il rischio era che non vi fosse una fine a questa rassegna...

La saga continua, dunque, ma sotto forma di prequel, nel senso che, attraverso un simbolico countdown, riavvolgiamo il nastro e torniamo alle origini del fenomeno, trattando una ulteriore decina di titoli che ci riportano al periodo 1990-1993 quando le mostruose fattezze del doom estremo hanno attecchito e preso forma in una perversa commistione fra lentezze e lungaggini doomiche e l'efferatezza del neonato death metal. Prima tappa: Halifax! 

Lost Paradise”, album di debutto dei Paradise Lost, è probabilmente il primo album di doom estremo della storia. Il doom compiva all’epoca i suoi primi venti anni di vita, se si vuole vedere come l’inizio del doom l’esordio mitico dei Black Sabbath (febbraio 1970). Nel corso degli anni l’empireo post-sabbathiano si era popolato di nomi quali Pentagram, Saint Vitus, The Obsessed, Candlemass, Solitude Aeternus e molti altri, artisti che hanno portato avanti il verbo sabbathiano "metallizzandolo", ossia spurgandolo progressivamente delle sue radici blues e psichedeliche ed amplificandone potenza e carica epica. Ci avrebbe pensato, nel corso degli anni novanta, la corrente stoner a rivitalizzare certe tendenze primigenie del doom. Nel medesimo periodo sarebbe anche stata avviata la fortunata stagione del gothic metal. Furono le frange più oltranziste del metal ad iniettare vitalità in un genere che rischiava di divenire autoreferenziale, e ciò sarebbe accaduto applicando la violenza delle nuove tendenze estreme del metal alla lentezza meditativa e dai risvolti trascendentali del doom più atmosferico. Emetteva i primi vagiti il doom-death metal, i cui miasmi esalavano sempre dalle nebbiose brughiere inglesi. E i Paradise Lost, dalla ridente cittadina di Halifax, furono indubbiamente fra i primi, se non i primi. 

Più che i primi, bisognerebbe dire che i Paradise Lost sono stati i più grandi, perché sono stati in grado di illuminare la strada a tutti quelli che sono venuti dopo e i loro primi dieci anni di attività parlano chiaro al riguardo. Con “Gothic” (1991) - fors'anche inconsapevolmente - avrebbero redatto il manifesto del doom-death metal, influenzando un esercito di band che avrebbero imboccato quella via rifacendosi proprio alle intuizioni di quell'album, ancora imperfetto, ma in grado di delineare scenari indubbiamente inediti per il periodo (uso disinvolto della chitarra solista a dettare lo sviluppo del brano, growl teatrale, incursioni di orchestra e voci femminili ecc.). Con “Shades of God” (1992) avrebbero migliorato la formula ed ampliato ulteriormente il loro range espressivo (lunghe escursioni acustiche, un potenziale melodico espresso con maggiore maturità e compostezza, una clamorosa "As I Die" a dettare nuovi standard per la band e per il genere intero), mentre con “Icon” (1993) e “Draconian Times” (1995) i Paradise Lost si sarebbero mossi da maestri indiscussi, avviando un percorso virtuoso che, lasciandosi alle spalle le asperità ereditate dal death metal, si sarebbe diretto verso un gothic metal melodico, romantico e sempre più legato allo spleen decadente della darkwave ottantiana. Ci fermiamo qui, anche se il cammino del Paradiso Perduto avrebbe proseguito temerario abbattendo barriere su barriere, approdando all’elettronica con il goth-rock radiofonico di “One Second” (1997) ed uscendo addirittura dal metal con “Host” (1999), oramai prossimo a territori depechemodiani

Ci fermiamo qui per sottolineare la grandezza di una band che in una manciata di anni ha saputo fondare e superare generi. La domanda che ci poniamo, semmai, è: come sarebbe stato valutato un lavoro come “Lost Paradise” se i Paradise Lost non avessero imboccato la via del successo e della notorietà con i lavori successivi? L’esordio della band di Halifax è indubbiamente acerbo e gode senz’altro di un “effetto rivalutazione” dovuto all’altisonante nome scritto sulla sua copertina, riscoperto dai fan completisti che hanno voluto conoscere la band nel suo stato primordiale. Ma "Lost Paradise" non è un brutto album, affatto, ed anzi contiene in sé i semi che sarebbero germogliati e fioriti in quel suono che tanto avrebbe fatto scuola. 

Certo l’album non si presenta bene con una copertina che ritrae il profilo di un robot alquanto assorto (ancora oggi mi chiedo il perché): una copertina che si sarebbe prestata meglio ad un concept sull'intelligenza artificiale e che denota vaghezza di intenti e l'adesione ai cliché di un metal estremo che, qualunquisticamente, ricercava in suggestioni horror o fantasy la controparte visiva alla brutalità della propria offerta sonora. Ben più significativa è semmai la foto che si trova all’interno del booklet, un suggestivo scatto in bianco e nero che cattura il mesto quintetto con alle spalle la guglia di una cattedrale e le croci di un cimitero: più gotici di così si muore! E Nick Holmes in primo piano, scarruffatissimo, che esibisce una maglietta dei Confessor: questo sì che ha del programmatico! Ma è lo sguardo sconsolato di questi "giovani dal cuore decrepito" che costituisce la vera novità, andandosi a contrapporre alle espressioni truci e minacciose che chi suonava death metal assumeva nel momento della fatidica foto di gruppo. Non vi è belligeranza ma solo arrendevolezza; non vi è l’enfasi caricaturale, quasi fumettistica, quel gusto per il kitsch e per l’esagerazione, ma una onesta mestizia che, invece, avrebbe perfettamente anticipato gli umori di cui si pervadeva la musica proposta. 

Oggi tutto questo sembrerà banale e scontato, ma questo con i Paradise Lost accadeva per la prima volta: senza andare a scoperchiare troppe cripte dell’underground, possiamo serenamente sostenere che “Lost Paradise”, uscito il 5 febbraio 1990, è stato il primo album a mettere insieme doom e stilemi death metal, fra cui ovviamente il growl, uno stile di canto che, fino ad allora, era stato associato principalmente a modalità espressive votate alla velocità (se si vuole vedere il death metal come l’estremizzazione e la definitiva codificazione delle istanze più oltranziste di certo thrash metal di metà anni ottanta). Che ci vorrà mai a mettere insieme riff lenti e pesanti ed una voce brutale e mostruosa? Nulla, eppure prima dei Paradise Lost non lo aveva fatto nessuno. C’è da dire che i Nostri non sono solo stati gli iniziatori di una formula (come tanti "eroi per caso", divenuti in seguito seminali e rivalutati a posteriori), ma coloro che questa formula l’hanno saputa far funzionare, che l'hanno resa vincente, in modo consapevole. Come? Con l’ispirazione, in primis quella dei due mastermind del progetto. 

Il chitarrista Gregor Mackintosh, che con i soliloqui della sua chitarra avrebbe letteralmente forgiato il linguaggio del gothic metal, poteva contare su un talento melodico fuori dal comune, sia a livello compositivo che realizzativo, risultando capace di dare ai brani (potenzialmente tendenti al monotono) un profilo riconoscibile, impreziosendoli con ricami che, fino ad allora, erano sconosciuti all’universo del metal estremo. E poi vi era il vocione greve di Nick Holmes, che non avrebbe sfigurato in una band death metal, ma che qui si calava alla perfezione in una dimensione sulfurea fatta di riff spossanti e ritmi cadenzati: una potenza canora che si cibava della lentezza per meglio scandire il dolore e l’afflizione. 

Fra le corpose chitarre ritmiche Aaron Aedy e il basso tumefatto di Stephen Edmondson, i tempi erano dettati da Matthew Archer, il cui singhiozzante drumming appariva un po’ spompato (questo anche per la produzione non perfetta), ma con le caratteristiche di chi all'epoca si stava formando nella scuola death metal senza brillare per capacità tecniche o per la velocità di esecuzione. Il doom in questo aiutava, ma il tocco death si sentiva nei frequenti cambi di tempo, in certe galoppate che inasprivano il suono e nell’utilizzo incisivo del doppio-pedale che in certi passaggi andava ad intensificare il carattere drammatico del brano, conferendogli toni apocalittici. 

Insomma, “Lost Paradise” presentava un suono ancora non perfettamente messo a fuoco, frutto di musicisti che attraversavano ancora una fase di formazione, ma l'album va a costituire il fondamentale anello mancante fra doom e death metal: una voragine che sussisteva ancora all'alba del 1990, nonostante anni prima i seminali Celtic Frost avessero cercato di ergere un ponte fra i due mondi, indurendo il linguaggio sabbathiano per convertirlo alla causa del metal estremo. Sopravvivevano nel death metal dell'epoca dei momenti di lentezza (si pensi al sound catacombale degli Obituary o ai passaggi più impastati di Morbid Angel o quelli più "putrefatti" degli Autopsy), ma essi non rappresentavano altro che un escamotage stilistico atto a conferire un’atmosfera mortifera, macabra, un senso di carne decomposta ad un genere che intendeva giocarsi tutte le armi a disposizione per definire un linguaggio che potesse essere il più estremo possibile. Con i Paradise Lost il paradigma si capovolgeva: il carattere aggressivo diveniva corollario della componente atmosferica e non viceversa, ed al centro di tutto si collocava uno sguardo pessimista che non saettava più odio verso l’esterno, ma secerneva mestizia negli antri angusti di una interiorità incrinata che albergava in una dimensione esistenziale senza speranza. 

La cosa peculiare è che il tutto non suonava come un qualcosa di artefatto o pagliaccesco, in quanto il songwriting che animava i brani dei Paradise Lost intendeva ricercare soluzioni stilistiche e non si limitava all'"effetto sorpresa". I Nostri, del resto, hanno sempre maneggiato con serietà la loro musica: sono stati eccessivi, ma senza esagerare (se questa affermazione può avere un significato), grazie ad un innato senso della misura. E probabilmente, per questa loro serietà, sono stati sempre stati presi sul serio

La scaletta dei brani di "Lost Paradise" riesumava tre episodi delle demo precedenti e come spesso capita, si offriva in pasto al mercato un compendio di quella che è stata la prima fase di vita della band. Nonostante questo il lavoro suona compatto, animato da una visione artistica semplice ma netta nella sua proiezione, con brani che, pur muovendosi lungo le medesime coordinate, si distinguono per caratteristiche intrinseche ed una ricerca nella scrittura volta a realizzare canzoni autonome e dotate di un senso, piuttosto che abbandonarsi all'esplorazione di un linguaggio (scrivere brani e non album, del resto, sarà una caratteristica costante dei Paradise Lost, nei cui lavori abbiamo trovato "hit" sublimi accanto a tracce ben più trascurabili). 

L’intro spettrale di quasi tre minuti tiene in sospeso l’ascoltatore, che potrebbe aspettarsi il classico attacco ferale tipico dell’epoca, e che invece viene sepolto sotto la terra ancora umida dei riff vischiosi di “Deadly Inner Scene”. Segue un trittico di grande pregio con “Paradise Lost”, “Our Saviour” e soprattutto “Rotting Misery” (capolavoro della prima ora), episodi che, dietro la scorsa grezza, mostrano idee ed un inconsueto dinamismo fatto di strutture articolate e di variazioni ritmiche, con sfumature di tastiere fra il chiesastico e il fantasmatico ad aggiungere morbosità. Quanto al lato B, come non citare la voce femminile che “illumina” “Breeding Fear” (elemento, quello dell'impiego di un'ugola femminile, che verrà riutilizzato anche nei lavori successivi) e la conclusiva, affossante “Internal Torment II”, sequel di un brano realizzato in precedenza per una demo. 

Non lascia di buon umore questo primo album dei Paradise Lost, ma l’effetto - c’è da giurarci - è voluto. Dopo i Nostri avrebbero parlato con un linguaggio più forbito, si sarebbero mossi con maggiore eleganza e sostanzialmente sarebbero divenuti i Paradise Lost che tutti noi abbiamo amato, ma in questo brutale esordio uno squarcio su una nuova dimensione musicale si sarebbe finalmente aperto. C’è chi li avrebbe presi in parola e che in quel torbido abisso avrebbe continuato a rovistare, non per seguirli ed elevarsi verso forme più evolute di gothic metal, ma per degradarsi ulteriormente...