Mentre il bus percorre i tornanti che conducono in cima alla collina su cui si erge il maestoso Alexandra Palace, rifletto sul senso che per me può avere l’evento a cui sto per assistere. Non sono un fan dei Gojira, per certi aspetti non li ho mai capiti, trovando i loro brani a volte inconcludenti, altre incompleti, come se mancasse loro qualcosa, ma colgo nella loro musica anche una certa genialità compositiva che mi porta a voler approfondire la band, saggiare di persona se per davvero si tratta di una entità superiore del metal contemporaneo (uno dei migliori gruppi degli anni dieci, come li apostrofa certa critica) o un fenomeno sopravvalutato.
Attorno a me, sul bus, noto ragazzi con i capelli colorati, nerd occhialuti che sembrano appena usciti da un laboratorio di ricerca universitario, qualche personaggio più attempato dalla lunga barba e il cranio rasato, persino delle ragazze. Il campione è abbastanza rappresentativo del pubblico trasversale che la band francese ha saputo negli ultimi anni accattivarsi grazie ad un paio di lavori controversi (“Magma” e “Fortitude”) che li ha traghettati dal death metal dalle tinte progressive dei primi album ad un sound più ampio ed indulgente nei confronti di sonorità easy-listening. I Gojira, dunque, non sono più la band di nicchia che in pochi ma attenti ascoltatori hanno scoperto e stimato fino a pochi anni fa, ma un fenomeno di massa che riesce ad intercettare tanto gli appassionati di metal estremo quando gli amanti di un rock contemporaneo che, in modo cannibalico, sta ampliando i confini in tutte le direzioni. E proprio una location prestigiosa come l’Alexandra Palace, in genere non prestata a concerti di vil metallo, odora di consacrazione per la formazione francese.
L'Alexandra Palace è un enorme edificio vittoriano costruito nel 1873 nella zona nord di Londra. Da questa collina si usa sparare i fuochi di artificio a Capodanno, ma stasera i fuochi di artificio saranno sparati direttamente dentro l'edificio, considerato l'elevato tasso di spettacolarità dello show che ci attende. Una volta varcato il pittoresco androne d'ingresso, ti ritrovi in un'ampia area dedicata alla ristorazione infestata dal chiacchiericcio della gente e dagli odori (anche molesti) di svariati stili di cucina. La sala-concerti cambia ancora le carte in tavola dando quasi l’impressione di un magazzino dismesso o addirittura di un centro sociale.
All'Alexandra Palace, tanto per dare una idea, è stato registrato “Idiot Prayer: Nick Cave Alone at Alexandra Palace”, una lacerante esibizione eseguita dal cantautore in assoluta solitudine (solo lui e il suo pianoforte a coda - niente pubblico). Si può percepire, assistendovi, un palpabile senso di vuoto: quello che lascia un lutto insopportabile (Cave aveva perso di recente un figlio), ma anche quel vuoto che fungeva da specchio dei tempi (il live fu trasmesso in diretta in streaming il 23 luglio luglio 2020 in piena pandemia). Questo avveniva all’Alexandra Palace circa due anni e mezzo fa e lo scenario odierno non poteva essere più diverso: sala gremita di gente in fervente attesa di una band heavy metal che si porta appresso un suono massimalista, a tratti ancora brutale, ed uno spettacolo pirotecnico che si pone agli antipodi dell’esperimento isolazionista di Nick Cave.
I Gojira non fanno il tutto esaurito ma solo perché la venue è molto capiente (circa 10000 posti). C'è inoltre da dire che, a contrario di gente come Behemoth ed Amon Amarth (che in ambito estremo fanno i sold out ma portandosi dietro band di supporto di primario livello, tanto che i loro concerti assumono le sembianze di mini-festival), i francesi fanno da soli il pienone, considerata la scarsa rilevanza dei gruppi di supporto. Dedicheremo a costoro non più di un paragrafo.
Ho cercato in tutte le maniere di evitare queste due band, di cui avevo distrattamente ascoltato qualcosa in rete. Ci sono riuscito con gli opener Employed to Serve, ma non con gli Alien Weaponry. Purtroppo arrivo in tempo per loro: considerato il monicker ti aspetti come minimo un suono futurista, cibernetico, sprizzante suggestioni sci-fi da tutti i pori ed invece ti ritrovi ben piantato per terra con un thrash/groove metal assai riscaldato. Il trio neozelandese offre come peculiarità l’utilizzo della lingua maori, cosa che non salva l’operazione, ma anzi, a mio parere, rende la loro musica ancora più insopportabile. Tutti e tre i musicisti contribuiscono dietro al microfono, dando un effetto corale ad una proposta assai antiquata che vede i Sepultura di "Roots" come evidente epicentro: ci mettono grande energia, entusiasmo e la giusta umiltà, li potremmo anche apprezzare per questo, ma ciò ovviamente non basta per mandare giù un set abbastanza insipido e peraltro penalizzato dal fatto che per tutto il tempo mi sono dovuto preoccupare di rintracciare i miei due compari, visto che all'Alexandra Palace il telefono non prende.
Che non si sia provveduto alla copertura di rete per ovviare alle spese per luce e gas?? Gli organizzatori di questo tour, infatti, non sembrano preoccupati per il rincaro energetico, allestendo uno show sfavillante che sa integrare bene luci, laser, proiezioni, zaffate di fumo e fiammate vere e proprie: un dispiegamento di forze dall’imponenza oserei dire pinkfloydiana che raramente ho visto mettere a disposizione di una band metal, nemmeno per quelle più blasonate, a dimostrazione dello status di grande popolarità oramai acquisito della formazione francese, supportata e foraggiata dalla facoltosa Roadrunner.
Mentre ancora echeggia in filodiffusione della musica post-rock - progressivamente funestata da stonature di ambient-music - parte un lungo countdown di 180 secondi con i numeri proiettati su un enorme telo destinato a celare l’ingresso della band sul palco. Attacca irrequieta “Born for One Thing” per poi esplodere nel momento stesso in cui il telone cade a terra svelando finalmente i quattro musicisti. I suoni sembrano leggermente impastati, con la batteria del grandioso Mario Duplantier in netta evidenza rispetto al resto: problemucci che verranno risolti velocemente dagli ottimi fonici. La band mostra precisione e potenza nel riproporre il proprio repertorio, con un basso bello gagliardo che rinforza ulteriormente il solido wall of sound allestito dalle due chitarre. Quanto a Jon Duplantier si mostrerà un frontman di media levatura, più che altro impegnato con il suo strumento e loquace il giusto, ma la sua voce ci arriverà forte e chiara anche quando si cimenterà nel pulito (aiutato dagli effetti e dai delay che rendono accettabili anche dal vivo quelle "grida eteree" che nel tempo sono divenute un vero trade-mark per la band).
La prima parte del set prosegue all’insegna di brani spezza-ossa, che tuttavia nella loro complessità non sempre rendono al massimo sulle assi di un palcoscenico. Ma ecco che appena la palpebra inizia a calare, o il sopracciglio ad inarcarsi, le fiamme ossidriche ci vengono in soccorso destandoci da ogni distrazione con grosse fiammate ed annesse vampate di calore. A spiccare in questa prima fase è una bella esecuzione di “Stranted”, bombastica nell’incedere e baciata da un bellissimo ritornello in voce pulita nel finale. Da segnalare anche la riproposizione dell’immancabile “Flying Whales”, momento atmosferico in cui la band si ritrova letteralmente immersa negli abissi dell’oceano, fra fluttuanti balene ed oniriche meduse. Degna di menzione speciale è la portentosa “The Art of Dying”, con il drumming nervoso di Duplantier ad affrontare il riffing terremotante delle chitarre.
Un provvidenziale assolo di batteria mi permette di andare a pisciare. Dopo un breve salto al bar, il mio ritorno sotto al palco coincide con un evidente cambio di umori. A partire da “Another World”, infatti, si respirerà un'aria più rilassata, meno tesa, inebriata dal lato più radiofonico dei Gojira, con brani più semplici nel loro concepimento ma di sicuro impatto: il canovaccio sembra il medesimo battuto dai Mastodon,
che da un robusto post-hardcore son passati in pochi anni allo
stoner-rock ed alla psichedelia. Ma se al combo di Atlanta riconosco una
certa ispirazione ed anche una predisposizione nel compiere quel tipo
di cammino, per i francesi, considerate le loro caratteristiche di
partenza, questo stesso percorso potrebbe rivelarsi un pericoloso vicolo
cieco. Sia quel che sia, le trame più lineari dei nuovi brani giovano alla dimensione concertistica, come se la tensione catturata negli episodi più datati venisse rilasciata nei momenti più orecchiabili. Proprio in questi pezzi il pubblico sembra raggiungere la massima estasi, cantando i ritornelli, saltando e battendo le mani a tempo con gioia sfrenata.
Non si poga molto ad un concerto dei Gojira, sia quando vanno veloci (visto che i brani possono cambiare umore in ogni momento, concedendo poco spazio di azione ai pogatori), sia quando rallentano e si lanciano in un plateale rock da stadio. Si respira un clima di grande civiltà e rispetto reciproco. Addirittura c’è qualcuno che si volta per azzittirci, visto che si parlava ad alta voce. Ma la cosa che fa incazzare di più è che il rimprovero viene fatto con il sorriso sulle labbra (forse anche con un filo di arroganza) e non con il volto spazientito, come se fosse la cosa più normale del mondo stare zitti ad un concerto death metal con altre migliaia di persone. Non parte la rissa solo perché siamo ad un concerto dei Gojira e tira una strana aria da salotto del metal (successivamente, riguardando i video che abbiamo girato, ci renderemo conto, ascoltando le nostre sgradevoli voci, di essere stati molesti per davvero, nda).
Stiamo zitti, dunque, o al massimo limitiamoci a cantare (leggendo i testi sullo schermo) i ritornelli anthemici della già citata “Another World” (con tanto di paraculissimo cartone-animato proiettato sullo sfondo), di “Our Time is Now” (un brano inedito che presumiamo farà parte del prossimo album) e di “The Chant”: tutte tracce che rendono indubbiamente bene dal vivo a scapito di una scrittura semplificata ed una evidente vocazione radiofonica. Del resto, dove non arriva la musica, ci sono i “fuochi di artificio” a reggere la baracca, come se i passaggi più banali di questi brani venissero rinforzati, “vitaminizzati”, a suon di iniezioni energiche di lancia-fiamme e giochi di luci. Ed appena la mente inizia a vagare altrove, ecco che le fiamme-ossidriche ci riportano all'ordine. Non nego che a tratti mi è sembrato quasi di essere finito in un romanzo distopico. La penna di George Orwell sarebbe stata perfetta, infatti, nel descrivere il Regime dell'Intrattenimento del Concerto Metal 3.0: vietato annoiarsi, vietato distrarsi. Il top si raggiunge con il lancio di coriandoli durante “The Chant”, escamotage che entusiasma i più ma che a me puzza un po' di toppa per coprire la debolezza strutturale dei brani.
Per carità, non siamo contro il cambiamento in sé, contro l’ammorbidimento e la concessione alla melodia ed alla orecchiabilità, ma un po’ rimaniamo perplessi quando questo comporta un appiattimento della proposta di una band e la perdita di certe caratteristiche fondanti dell’identità della stessa. I Gojira si sono distinti per una certa intelligenza compositiva, per la capacità di integrare un riffing chirurgico allo strabiliante drumming di Mario Duplantier. Ma se quel drumming si fa lineare, se il riffing si fa fluido e pastoso ed echeggia un rock sui generis ed impersonale, se il growl imperioso si fa una indefinita vocalità pulita pieni di echi e riverberi, cosa rimane dei Gojira?? Ma soprattutto: che razza di rock sono in grado di realizzare i Gojira se non sanno scrivere ritornelli e non fanno assoli?? Beninteso: queste sono tutte varianti gradite in sede live, e forse un concerto di soli “vecchi Gojira” alla lunga potrebbe rivelarsi ostico se non si conoscono i pezzi a menadito, ma se questa deve diventare la dimensione privilegiata dei “nuovi Gojira” qualche legittima preoccupazione per le sorti future della band sorge spontanea.
Brani d'antan come “L’Enfant Sauvage” e “Toxic Garbage Island” spezzano il flusso, andando ad accentuare il carattere schizofrenico dello spettacolo. Una buona sintesi delle due istanze, a mio avviso, è rappresentata dalla conclusiva “Amazonia”, la quale vede coesistere pacificamente le due anime della band, conservando da un lato un sound massiccio e discretamente complesso, ed incarnando dall'altro un'attitudine più diretta e in-your-face che richiama il groove dei vecchi Sepultura (sempre siano lodati!).
E’ tempo di bis e senza grandi sorprese vengono riproposte in stretta successione “Silvera”, “New Found” (altra paraculata ma con una bella coda melodica a rilassare gli animi) e l’ottima “The Gift of Guilt”, il brano più atteso della serata da parte del sottoscritto. E’ il mitico giro di tapping, prima solo accennato, poi eseguito con vigore, ad aprire le danze, spezzato dal drumming estroso di Mario Duplainter. Spettacolare l'effetto della pioggia dorata che, fra ammalianti luci rosse, cade giù lentamente ad accompagnare le note: una scena memorabile per chiunque abbia avuto la fortuna di assistervi. Fra rigurgiti di death arcigno ed aperture melodiche, il brano si conclude come era iniziato con una bella coda strumentale ad incalzare un pubblico sempre più festante.
Finito il concerto, defluiamo lentamente verso l'uscita. Decidiamo di evitare gli affollati bus-navetta e ci avviamo a piedi lungo i tornanti della collina per tornare in pianura e prendere la metropolitana. Mentre una immaginifica London by night si proietta oltre il parapetto (ma quanto sei bella Londra nella quiete della notte!), mi chiedo ancora che diavolo di musica suonino i Gojira. Non l’ho mai capito e manco stasera mi sono chiarito le idee. Sembra infatti di avere avuto a che fare con due band differenti. Da un lato ci sono i Gojira band death metal che, forti delle influenze dei classici del genere (Death e Morbid Angel in primis) riescono a confezionare un suono moderno con geometrie di imponenza meshuggiana ed azzeccate aperture melodiche (si pensi alle svisate di tapping o alle fasi atmosferiche debitrici di certa sensibilità post-metal). E poi ci sono i nuovi Gojira, quelli più orecchiabili, che virano verso il rock e hit cantabili, estratte principalmente dall’ultimo album ben presente in scaletta. Una sorta di schizofrenia che mi ha ricordato le attuali esibizioni degli Opeth, spartite fra il prelibato death metal progressivo degli anni d'oro e le sonorità rock-settantiane degli
ultimi lavori. Ad unificare le due anime dei Gojira oramai c'è solo il
presentissimo messaggio ecologista (portato avanti con coerenza, questo va detto).
Matthew Scar mi è parso un po' perplesso stasera: trova i Gojira un po' fumosi e non ha tutti i torti. Il Professore, invece, è rimasto soddisfatto: dice di essersi divertito, ma si riferisce più che altro al "pacchetto evento" e non tanto alla band in sé, su cui abbiamo condiviso molte impressioni. Quanto a me, mi sono stupito di aver trovato così tante persone ad un concerto di metal estremo: un successo strepitoso, quello dei francesi, impensabile fino a pochi anni fa per una band dedita a questo tipo di musica, a dimostrazione di come certe proposte estreme oggi possano abbracciare un pubblico ampio e non necessariamente ascrivibile alla dimensione del metal.
Prima del concerto mi ero detto che probabilmente avrei visto una band al proprio apice, ma forse quel momento è già passato: i Gojira, in fondo, artisticamente hanno dato il meglio nel periodo "The Way of All Flesh" / "L'Enfant Sauvage" (2008-2012), dopo sarebbe arrivato il successo, ma solo quello. I Gojira hanno dunque già da tempo scollinato: sono ancora una band meravigliosa, ma hanno già in corpo il virus del meanstram ed ombre più oscure offuscano il loro futuro, se si dovesse proseguire sulla scia del brano inedito "Our Time is Now". Ci preoccupa, come si diceva sopra, un eccessivo annacquamento della loro proposta ed un tendere verso lidi poco consoni alla loro natura: una scelta stilistica che va a svilire i punti di forza e spinge la band a cimentarsi in ambiti non connaturati alla sua fisiologica inclinazione. Solo il tempo ci dirà se l’industria discografica saprà piegare anche questa virtuosa realtà del metal oppure i Nostri sapranno resistere alle lusinghe del mercato, difendendo audacemente la loro identità artistica...