Questo mese raddoppiamo. Facciamo
uno strappo alla regola che vorrebbe un solo brano cada mese per la nostra
nuova Rubrica “12 mesi di Metal”, e dopo lo splendido post del nostro
Dottore sui Testament e la loro “Seven days of may”, affrontiamo “The may song” dei The Gathering.
Del resto chi legge Metal Mirror
lo sa: le regole, se c’è di mezzo lei, la divina Anneke, si possono eludere e in
redazione sbrodoliamo, con gli occhi (e le orecchie) che diventano a forma di
cuoricino, quando si parla della van Giesbergen.
E poi bisogna solo togliersi il cappello davanti all’epopea di Anneke nei
The Gathering; un'esperienza più unica che rara: sei album in undici anni (live esclusi); sei album uno diverso dall’altro; uno l’evoluzione coerente dell’altro, uno più
bello dell’altro.
Non saprei farne una graduatoria
ma se, sotto tortura, ne fossi costretto, indicherei come migliori quello con
cui tutto cominciò (e con il quale mi innamorai follemente di lei), il
celeberrimo “Mandylion”, e buon secondo il coraggiosissimo “How to measure a
planet?”.
“Nighttime birds”, che tra
pochi giorni (il 06 giugno, per la precisione) compirà 20 anni tondi tondi, contenente
la song oggetto del nostro post, si trova schiacciato tra questi due colossi
(manco a farlo apposta, una situazione molto simile a quello che avevamo già visto trattando gli Iron Maiden a
marzo e gli Opeth ad aprile). NB è esattamente quello che si definisce un disco-ponte, il disco di
transizione perfetto tra il passato doom-gothic di “Mandylion” e il futuro
indefinibile della band (Alternative rock? Prog metal? Trip-rock? Chiamatelo come vi
pare), che spiegherà le sue coloratissime ali proprio da HTMAP in poi; processo che renderà i The
Gathering testimoni superbi di un Rock senza aggettivi, in cui convivono diverse anime
e tendenze e nel quale il tocco personale della band risulterà sempre ben
evidente (percorso che toccherà la sua summa evolutiva con l’altrettanto sensazionale “Home” del 2006).
Etereo, sognante, ma all'occorrenza anche tosto, con una
sapiente alternanza dei pieni e dei vuoti: il songwriting dei quasi 50 minuti
di NB appare coraggioso e sperimentale sia nei brani più old-style e tirati
(l’opener “On most surfaces”, “Third chance”) come in quelli più dilatati e squisitamente
prog (“New moon, different day”, la title track).
Tornando al focus del post, “The May
Song” è la seconda traccia più corta
del disco, appena 3’ 45”. E così come la più corta (la meravigliosa “Kevin’s
telescope”) ha la sua ragion d’essere nell’espressività, nell’emozionalità
messa in campo dalla band, ormai padrona assoluta, rispetto agli acerbi esordi
pre-Anneke, dei propri mezzi. Aperta da un dolcissimo arpeggio, dopo
pochi secondi si innesta, soave e su tonalità alte, la voce di Anneke a guidare
la strofa; ancora stesso schema per la seconda strofa prima di arrivare allo scoppio elettrificato del
chorus: “Pale is my face / you might want to colour / while I breathe”, guidato
da un energico riff metallico, da un solo-riff e successivo ritorno all’arpeggio
iniziale.
Desidero che le tue mani si
stringano sul mio polso / Mi immorbidisco nell’erba calda / e il tuo profumo e
ciò che mi manca…
La canzone in realtà non sembra parlare
del mese di maggio. Le lyrics si configurano per lo più come poetici versi (sto
seguendo grosse gocce di pioggia / ai miei occhi manca la visione di te) che
creano un mood onirico, un’atmosfera sognante; quella tipica atmosfera
malinconica, cupa ma mai disperata,
che è IL marchio di fabbrica degli olandesi; un marchio che non abbandoneranno
mai, in tutta la loro ampia discografia, nonostante in essa i Nostri sapranno
trattare come detto i più svariati stilemi del mare magnum del Rock.
Tutto il disco, e “The may song”
ancor di più nel suo essere sapientemente sintetica, mette in luce probabilmente
quella che è la caratteristica principale dei fratelli Rutten e del tastierista
Frank Boeijen: la “complessa semplicità”. Provo a spiegarmi: non sono dei
mostri di tecnica i componenti dei TG, non sono dei virtuosi e non ricorrono
mai a sensazioni ad effetto. Ma quello che li ha da sempre contraddistinti è il
gusto, l’accuratezza degli arrangiamenti, la scelta dei suoni, l’inserimento di
un particolare effetto che dona, al momento giusto nel posto giusto, quella
raffinatezza (dal retrogusto amaramente malinconico) che ti fanno dire al primo
ascolto: “questo è un brano dei The Gathering, non ci sono dubbi!”.
“The may
song” è idealtipica in questo contesto: semplice, delicata. Se vogliamo
“facile”. Ma al contempo…valla a comporre se non ti chiami Renè Rutten! Valla a
scrivere, e soprattutto a cantare se non sei Anneke (una che, per citare il nostro Mementomori, “ci emozionerebbe anche se leggesse l’elenco telefonico”!). “Paesaggi dell’anima” definiva
giustamente le canzoni di NB il collega, come quello scenario
innevato in copertina. Dove, nonostante tutto, la natura (la speranza?) resiste
e vive seppur in difficili condizioni.
“Nighttime birds” è in definitiva uno
degli esempi meglio riusciti di come alla c.d. definizione “album di
transizione” non debba essere accompagnata un’accezione negativa (cosa che
invece spesso si tende a fare).
I The Gathering dimostrano che anche album così
possono essere capolavori.
A cura di Morningrise