"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

1 mag 2017

PERCHE' NON LEGGERO' "J. R. R. TOLKIEN IL SIGNORE DEL METALLO" DI STEFANO GIORGIANNI



Perché, con tutto il Male che c'è nel mondo (terrorismo, stragi, guerre atomiche, idioti al potere ecc.), bisogna prendersela proprio con il buon Stefano Giorgianni e il suo libro? Cosa ci hanno fatto di male? E perché "J. R. R. Tolkien Il Signore del Metallo, l'immaginario tolkieniano nel panorama heavy metal dal black al power" urta la nostra sensibilità solo a leggerne il titolo? Per non parlare poi della copertina?

Procediamo con la consueta schiera di premesse.


Punto primo: ho detto che “io” non leggerò questo libro, non che non bisogna leggerlo (anzi, auguro un gran successo a Giorgianni, ci mancherebbe, e del resto siamo consapevoli che con queste righe gli procureremo un po' di pubblicità, secondo la famosa regola: "Se ne parli bene, se ne parli male, purché se ne parli!").

Punto secondo: conosco ed amo Tolkien e ritengo "Il Signore degli Anelli" una lettura imprescindibile per chiunque, una delle opere più importanti della narrativa del Novecento, e non solo all'interno dei reami del genere fantasy (genere a cui riconduciamo Tolkien solo per comodità, ben consapevoli che il discorso è più ampio e complesso).

Punto terzo: sono un grande estimatore dei Blind Guardian e a mio avviso "Nightfall in Middle-Earth", basato su "Il Silmarillion", è uno degli album più belli mai partoriti dal metal in generale. Adoro inoltre il Burzum elettrico (ma che delusione, però, apprendere che Grishnakh è un orco fetente e nemmeno dei più brillanti!) e pazienza (questo lo devo ammettere) se mi annoio a morte innanzi ai lavori dei Summoning: non posso in ogni caso negare il potere evocativo della loro musica, un'atmosfera unica conferita proprio dai puntuali riferimenti al mondo tolkieniano.

Punto quarto: ritengo Giorgianni, caporedattore di Metal Hammer Italia e socio di spicco dell'Associazione Italiana Studi Tolkieniani, la persona indubbiamente più titolata per un'impresa del genere.

Punto quinto: mi sono persino andato a leggere l'introduzione del libro (scaricabile gratis dal sito della casa editrice Tsunami Edizioni) e posso affermare che Giorgianni sa anche scrivere! E allora, ci chiediamo nuovamente: perché rompere i coglioni ad un onest'uomo che non ha fatto altro che incrociare le sue due passioni (Tolkien e il metal) in un unico progetto editoriale?

Un progetto editoriale, fra l'altro, che ha il suo perché. Del resto Giorgianni, che un nome ce l'ha ed è nell'ambiente editoriale da una vita, pur con tutta la passione che può aver riversato in queste pagine (tanto che è lecito pensare che si sia divertito e che per lui l'aspetto economico sia stato secondario), avrà dovuto valutare, insieme a chi di dovere, la vendibilità del prodotto: vendibilità che, ovviamente, è altra cosa rispetto alla qualità del prodotto che, date le credenziali dell'autore, è fuori discussione.

Quando parlo di vendibilità, dunque, mi riferisco a come un'opera di tal fattispecie possa essere recepita dal proprio mercato di riferimento. Un mercato che, sebbene i temi in gioco siano due, protende più verso la musica che verso la letteratura. Perché in effetti è difficile poter pensare che un estimatore di Tolkien, per quanto assetato di conoscenza sul proprio beniamino, possa essere realmente interessato alle citazioni che di questo autore possono fare Isengard, Marduk o Gorgoroth (ci sarà anche qualche audace, niente è da escludere, ma non sono certo costoro la quotazione maggioritaria dei potenziali compratori).

Quindi c'è da chiedersi se il metallaro medio può essere interessato ad una lettura del genere. In teoria sì, considerato l'argomento trattato: il metallaro medio non è un gran lettore, ma se deve leggere qualcosa legge prevalentemente fantasy (sto generalizzando ovviamente). Ma, cosa ancora più interessante per la casa editrice, è soprattutto ancora molto affezionato all'oggetto: che sia vinile, CD, T-shirt, gadget o libro, il metallaro compra, custodisce e venera, laddove il resto del mondo scarica, dimentica e velocemente passa ad altro. Quindi il prodotto, potremmo concludere, oltre ad essere di qualità, è per giunta vendibile: e allora di cosa cazzo stiamo parlando?

Passiamo dunque alla parte difficile del discorso. Parto da una sensazione, che, come tutte le sensazioni, è difficile da spiegare a parole. Quando ho appreso di questa pubblicazione, ho avuto d'istinto una reazione che potrei associare al seguente aneddoto (sempre squisitamente letterario, of course). In "Cosmopolis" di Don DeLillo, il protagonista (Eric Packer, giovane uomo d'affari milionario) è in procinto di attraversare New York in limousine per andare a tagliarsi i capelli dal suo barbiere di fiducia, ma l'autista gli suggerisce di desistere dall'impresa perché vi saranno disagi in quanto il Presidente degli Stati Uniti è in visita in città, le strade pullulano di manifestanti, si temono disordini e persino un attentato. Cosicché Packer risponde, quasi annoiato: "Ah, perché oggigiorno si ammazzano ancora i presidenti??". Alla stessa maniera, d'istinto mi è venuto da pensare, con il medesimo tono: "Ah, perché oggigiorno si parla ancora di Tolkien rapportato al metal??".

Una frase che, a guardar meglio, suona strana se si pensa che l'argomento è tutto sommato vergine e, in ogni cosa, nessuno mai lo aveva affrontato in modo così esaustivo. Eppure, nonostante questo incontestabile dato di fatto, l'impressione che ho avuto è di già sentito, già vissuto.

E' da quello "strano nome" che adottarono i Cirith Ungol che il tema emerge agli occhi dei meno distratti, sebbene sia lecito pensare ancora che, in quanto caso isolato, l'immaginario tolkieniano abbia costituito una scelta come un altra nel gran calderone del fantasy per dare un adeguato sfondo alle movenze riottose di un metal epico e battagliero quale è quello della band in questione. Ma con album come "Tales from the Twilight World" e "Somewhere Far Beyond", e poi maggiormente con "Imaginations from the Other Side" e, appunto, "Nightfall in Middle-Earth" (quasi venti anni fa!), il legame Tokien-Metal si è palesato agli occhi anche del metallaro più distratto: una corsa in crescendo, quella in tandem di Tolkien e Metal, che toccherà il suo apice, mediaticamente parlando, nella trasposizione cinematografica de "Lo Hobbit" di Peter Jackson (e qua si parla di marketing per davvero, che come sempre arriva a certificare movimenti ormai consolidati), dove ritrovavamo (non a caso, secondo me) la figura del metallaro sovrapposta a quella del nano (eh sì, dai, ‘sti nani sembravano una schiera di Turilli, Tiranti ed altri power-metaller in miniatura!): parallelo fra l'altro nemmeno dei più edificanti, visto che i nani, nella Terra di Mezzo, sono esseri rozzi ed ottusi (buoni e coraggiosi quanto vi pare, ma duri, più duri del legno di quercia!).

Azzardo dunque un giudizio più forte: la pubblicazione di questo libro mi sembra superflua, intrisa di una futilità che si aggiunge ad una futilità più ampia ed imperante (lo so, è un paragone fuori luogo, ma il libro-inchiesta "Lord of Chaos - La storia insanguinata del metal satanico" di Soderlind e Moynihan vedeva la luce nel 1998, appena pochi anni dopo i fattacci dell'Inner Circle, portando con sé una freschezza ben diversa).

Un'idea, infatti, seppur nuova, a volte può nascere già vecchia, perché in fondo noiosamente logica, incolpevolmente banale. Sì, se c'è una cosa che mi dà fastidio oggi, in questo mondo ammorbato dall'iper-informazione (che a volte può essere più dannosa della disinformazione), è l'ovvio, in particolare se rapportato alle cose che amo, come il metal per esempio.

Intanto è cosa ovvia trovare nel metal così tanti riferimenti alle opere di Tolkien, perché esse sono romanzi di formazione, letture popolarissime e statisticamente frequenti nei giovani. Il problema è che questa "quantità" di riferimenti non va di pari passo con la "qualità" degli stessi.

Partiamo dal lato testuale: il metal, va detto, su questo fronte è carente. La sua vera forza, la sua genialità, la sua unicità come genere stanno altrove: nella musica, nelle idee, nell'esecuzione, negli arrangiamenti, nelle innovazioni stilistiche. Non è un caso che il più delle volte, nel processo creativo del metal, si parta dalla musica e poi ci si alambicchi per adattarci sopra un testo, uno qualsiasi. Questi testi, che potremmo meglio definire come "appendici testuali", si ispireranno a quello che può essere il bagaglio culturale di un giovane senza grandi pretese  intellettuali: un film horror, un libro fantasy, tutt'al più un fatto storico, preferibilmente sanguinario. Tanto che si è finito, nel metal, per considerare Lemmy quasi un intellettuale (Lemmy????), perché (dicono) gli piaceva leggere libri di storia.

Quindi il problema non è la grandezza di Tolkien (incontestabile), ma la pochezza della interpretazione "metallica" che di questa grandezza viene fatta. Per esempio ritengo che Vikernes sia un grande poeta, ma trovo difficile che possa dire qualcosa di interessante su Tolkien. E probabilmente lui stesso ritiene quei rimandi un retaggio della sue letture di gioventù: già l'adozione quale nome d'arte del nome di un orco ha del puerile (soprattutto alla luce delle posizioni ideologiche, molto poco fantasy (ehm…), che il Conte assumerà successivamente) e il fatto che verrà presto abbandonato ne è praticamente una conferma...

Ok, liricamente il metal ha i suoi limiti, ma musicalmente? Quanto è stato in grado, con il suo apparato sonoro, di musicare quel complesso caleidoscopio di emozioni che offre la lettura di un'opera di Tolkien? Se si prendono i Summoning, che hanno impostato l'intera carriera sui suoi scritti, si può dire che la musica degli austriaci, per quanto evocativa, rappresenta solo una parte della vasta visione artistica dell'autore, concentrandosi essi solo sulla parte oscura, malefica, torbida, tralasciando tutto il resto: si va così a perdere un'immane ricchezza di sfumature che compongono la cosmologia tolkieniana, sacrificata perché si suona black-metal e non si può indugiare sui "buoni sentimenti". Se dunque i cosiddetti inventori del Tolkien-metal ci restituiscono una visione mutilata dell'arte del loro ispiratore, cosa dovremmo pensare di tutto il resto (che si presuppone tratti il tema con maggior superficialità)?

Probabilmente Giorgianni non se ne rende conto fino in fondo, come l'innamorato vede speciale la sua modesta spasimante (il metal in questo caso, nel suo rapporto con Tolkien), altrimenti non si sarebbe cimentato nell'impresa di considerare questa lunga schiera di osservatori e pensatori mediocri, questi "parolieri" e "pittori" del metallo, che scrivono testi e musiche semplificando qualcosa che è ben più complesso di una saga di avventure immaginarie.

Tolta la passione, che conferisce linfa vitale ad ogni piega del discorso, quello che probabilmente rimane di questa dissertazione (salvo qualche eccezione come i Blind Guardian, la cui tavolozza è ricca di colori e quindi capace di ritrarre in modo adeguato la complessità di certi "intrecci di sensazioni" tolkieniani) è una compilazione enciclopedica di contributi irrilevanti, forse un esercizio intellettuale (una caccia al tessssoro, potremmo dire) in cui l'autore sembra più assecondare una sua esigenza interiore che fare un reale servigio alla collettività. Il mio, si sarà capito, è più un processo alle intenzioni che altro.

Benché non esista una lettura univoca di un'opera, e ciascuno sia fieramente libero di rapportarsi ad essa come può o come meglio crede, di sicuro le lenti del metal non mi sembrano il miglior modo per rendere giustizia alla grandezza di Tolkien, o dare significative interpretazioni della sua opera.

Come del resto non fa bene al metal, sempre più attorcigliato in se stesso, ristagnare nei soliti temi del fantasy, quando invece, per il bene di tutti, sarebbe opportuno individuare spunti di maggior stimolo (per esempio gli Ocean che osano confrontarsi con Il Grande Inquisitore di Dostoevskij e persino con il cinema di Tarkovskij!).

La lettura de “Il Signore del Metallo..." è dunque rassicurante, quando però sarebbe il momento di sorprendersi, di pretendere di sorprendersi, perché sorprendenti (o strane, o anche mostruose innanzi alle coscienze non abituate) sono sempre state quelle grandi cose che hanno decretato i grandi cambiamenti (Lou Reed che iniziò a cantare dell'eroina o Leonard Cohen di tragedie bibliche mentre i collettivi del Flower Power giocavano ancora con l'LSD, sguazzando in consunte utopie).

Questa lettura, infine, mi evoca l'idea di un metal ancora bambino, che non ha voglia, non ha l'ambizione, il coraggio di andare oltre i soliti cliché: schemi che ci offrono sicurezze, ma che al tempo stesso ci intrappolano in una dimensione di "nerd paciocconi" che non meritiamo assolutamente, considerato il valore della nostra musica e dei nostri musicisti.


A tutti gli altri, dunque, buona lettura…