Perché, con tutto il Male che c'è nel mondo (terrorismo, stragi, guerre atomiche, idioti
al potere ecc.), bisogna prendersela proprio con il buon Stefano Giorgianni e il suo libro? Cosa ci hanno fatto di male? E
perché "J. R. R. Tolkien Il Signore
del Metallo, l'immaginario tolkieniano nel panorama heavy metal dal black al
power" urta la nostra sensibilità solo a leggerne il titolo? Per non
parlare poi della copertina?
Procediamo con la consueta schiera di premesse.
Punto primo: ho detto che “io”
non leggerò questo libro, non che non bisogna leggerlo (anzi, auguro un
gran successo a Giorgianni, ci mancherebbe, e del resto siamo consapevoli che
con queste righe gli procureremo un po' di pubblicità, secondo la famosa
regola: "Se ne parli bene, se ne parli male, purché se ne parli!").
Punto
secondo: conosco ed amo Tolkien e ritengo "Il Signore degli Anelli" una
lettura imprescindibile per chiunque, una delle opere più importanti della
narrativa del Novecento, e non solo all'interno dei reami del genere fantasy (genere a cui riconduciamo
Tolkien solo per comodità, ben consapevoli che il discorso è più ampio e
complesso).
Punto terzo: sono un grande estimatore dei Blind Guardian e a mio avviso "Nightfall in Middle-Earth", basato su "Il Silmarillion", è uno degli
album più belli mai partoriti dal metal in generale. Adoro inoltre il Burzum elettrico (ma che delusione,
però, apprendere che Grishnakh è un
orco fetente e nemmeno dei più brillanti!) e pazienza (questo lo devo
ammettere) se mi annoio a morte innanzi ai lavori dei Summoning: non posso in ogni caso negare il potere evocativo della
loro musica, un'atmosfera unica conferita proprio dai puntuali riferimenti al
mondo tolkieniano.
Punto
quarto: ritengo Giorgianni, caporedattore di Metal
Hammer Italia e socio di spicco dell'Associazione
Italiana Studi Tolkieniani, la persona indubbiamente più titolata per
un'impresa del genere.
Punto
quinto: mi sono persino andato a
leggere l'introduzione del libro (scaricabile gratis dal sito della casa
editrice Tsunami Edizioni) e posso
affermare che Giorgianni sa anche scrivere! E allora, ci chiediamo nuovamente: perché rompere i coglioni ad un onest'uomo
che non ha fatto altro che incrociare le sue due passioni (Tolkien e il metal)
in un unico progetto editoriale?
Un progetto editoriale, fra l'altro, che ha il suo
perché. Del resto Giorgianni, che un nome ce l'ha ed è nell'ambiente editoriale
da una vita, pur con tutta la passione che può aver riversato in queste pagine
(tanto che è lecito pensare che si sia divertito e che per lui l'aspetto economico
sia stato secondario), avrà dovuto valutare, insieme a chi di dovere, la
vendibilità del prodotto: vendibilità
che, ovviamente, è altra cosa rispetto alla qualità
del prodotto che, date le credenziali dell'autore, è fuori discussione.
Quando parlo di vendibilità,
dunque, mi riferisco a come un'opera di tal fattispecie possa essere recepita
dal proprio mercato di riferimento. Un mercato che, sebbene i temi in gioco
siano due, protende più verso la musica che verso la letteratura. Perché in
effetti è difficile poter pensare che un estimatore di Tolkien, per quanto
assetato di conoscenza sul proprio beniamino, possa essere realmente
interessato alle citazioni che di questo autore possono fare Isengard, Marduk o Gorgoroth (ci
sarà anche qualche audace, niente è da escludere, ma non sono certo costoro la
quotazione maggioritaria dei potenziali compratori).
Quindi c'è da chiedersi se il metallaro medio può
essere interessato ad una lettura del genere. In teoria sì, considerato
l'argomento trattato: il metallaro medio non è un gran lettore, ma se deve
leggere qualcosa legge prevalentemente fantasy
(sto generalizzando ovviamente). Ma, cosa ancora più interessante per la casa
editrice, è soprattutto ancora molto affezionato all'oggetto: che sia vinile, CD, T-shirt,
gadget o libro, il metallaro compra, custodisce e venera, laddove il
resto del mondo scarica, dimentica e
velocemente passa ad altro. Quindi il prodotto, potremmo concludere, oltre
ad essere di qualità, è per giunta vendibile: e allora di cosa cazzo stiamo parlando?
Passiamo dunque alla parte difficile del discorso.
Parto da una sensazione, che, come tutte le sensazioni, è difficile da spiegare
a parole. Quando ho appreso di questa pubblicazione, ho avuto d'istinto una
reazione che potrei associare al seguente aneddoto (sempre squisitamente
letterario, of course). In "Cosmopolis" di Don DeLillo, il protagonista (Eric Packer, giovane uomo d'affari
milionario) è in procinto di attraversare New York in limousine per andare a tagliarsi i capelli dal suo barbiere di
fiducia, ma l'autista gli suggerisce di desistere dall'impresa perché vi
saranno disagi in quanto il Presidente degli Stati Uniti è in visita in città,
le strade pullulano di manifestanti, si temono disordini e persino un
attentato. Cosicché Packer risponde, quasi annoiato: "Ah, perché
oggigiorno si ammazzano ancora i presidenti??". Alla stessa maniera,
d'istinto mi è venuto da pensare, con il medesimo tono: "Ah, perché
oggigiorno si parla ancora di Tolkien rapportato al metal??".
Una frase che, a guardar meglio, suona strana se si
pensa che l'argomento è tutto sommato vergine e, in ogni cosa, nessuno mai lo
aveva affrontato in modo così esaustivo. Eppure, nonostante questo
incontestabile dato di fatto, l'impressione che ho avuto è di già
sentito, già vissuto.
E' da quello "strano nome" che adottarono i
Cirith Ungol che il tema emerge agli
occhi dei meno distratti, sebbene sia lecito pensare ancora che, in quanto caso
isolato, l'immaginario tolkieniano
abbia costituito una scelta come un altra nel gran calderone del fantasy per dare un adeguato sfondo alle
movenze riottose di un metal epico e battagliero quale è quello della band in
questione. Ma con album come "Tales
from the Twilight World" e "Somewhere
Far Beyond", e poi maggiormente con "Imaginations from the Other Side" e, appunto, "Nightfall in Middle-Earth" (quasi
venti anni fa!), il legame Tokien-Metal
si è palesato agli occhi anche del metallaro più distratto: una corsa in
crescendo, quella in tandem di Tolkien e Metal, che toccherà il suo apice,
mediaticamente parlando, nella trasposizione cinematografica de "Lo Hobbit" di Peter Jackson (e qua si parla di marketing per davvero, che come
sempre arriva a certificare movimenti ormai consolidati), dove ritrovavamo (non
a caso, secondo me) la figura del metallaro sovrapposta a quella del nano (eh
sì, dai, ‘sti nani sembravano una schiera di Turilli, Tiranti ed
altri power-metaller in miniatura!):
parallelo fra l'altro nemmeno dei più edificanti, visto che i nani, nella Terra
di Mezzo, sono esseri rozzi ed ottusi (buoni e coraggiosi quanto vi pare, ma
duri, più duri del legno di quercia!).
Azzardo dunque un giudizio più forte: la
pubblicazione di questo libro mi sembra superflua, intrisa di una futilità che
si aggiunge ad una futilità più ampia ed imperante (lo so, è un paragone fuori
luogo, ma il libro-inchiesta "Lord
of Chaos - La storia insanguinata del metal satanico" di Soderlind e Moynihan vedeva la luce nel 1998, appena pochi anni dopo i fattacci dell'Inner Circle, portando con sé una freschezza ben diversa).
Un'idea, infatti, seppur nuova, a volte può nascere già vecchia, perché in fondo
noiosamente logica, incolpevolmente banale. Sì, se c'è una cosa che mi dà
fastidio oggi, in questo mondo ammorbato dall'iper-informazione (che a volte
può essere più dannosa della disinformazione), è l'ovvio, in particolare se
rapportato alle cose che amo, come il metal per esempio.
Intanto è cosa ovvia trovare nel metal così
tanti riferimenti alle opere di Tolkien, perché esse sono romanzi di
formazione, letture popolarissime e statisticamente frequenti nei giovani. Il
problema è che questa "quantità" di riferimenti non va di pari passo con
la "qualità" degli stessi.
Partiamo dal lato
testuale: il metal, va detto, su questo fronte è carente. La sua vera
forza, la sua genialità, la sua unicità come genere stanno altrove: nella
musica, nelle idee, nell'esecuzione, negli arrangiamenti, nelle innovazioni
stilistiche. Non è un caso che il più delle volte, nel processo creativo del
metal, si parta dalla musica e poi ci si alambicchi per adattarci sopra un
testo, uno qualsiasi. Questi testi, che potremmo meglio definire come
"appendici testuali", si ispireranno a quello che può essere il
bagaglio culturale di un giovane senza grandi pretese intellettuali: un film horror, un libro fantasy,
tutt'al più un fatto storico, preferibilmente sanguinario. Tanto che si è
finito, nel metal, per considerare Lemmy
quasi un intellettuale (Lemmy????), perché (dicono) gli piaceva leggere libri
di storia.
Quindi il problema non è la grandezza di Tolkien
(incontestabile), ma la pochezza della interpretazione "metallica"
che di questa grandezza viene fatta. Per esempio ritengo che Vikernes sia un grande poeta, ma trovo
difficile che possa dire qualcosa di interessante su Tolkien. E probabilmente
lui stesso ritiene quei rimandi un retaggio della sue letture di gioventù: già
l'adozione quale nome d'arte del nome di un orco ha del puerile (soprattutto
alla luce delle posizioni ideologiche, molto poco fantasy (ehm…), che il Conte
assumerà successivamente) e il fatto che verrà presto abbandonato ne è
praticamente una conferma...
Ok, liricamente il metal ha i suoi limiti, ma musicalmente? Quanto è stato in grado,
con il suo apparato sonoro, di musicare quel complesso caleidoscopio di
emozioni che offre la lettura di un'opera di Tolkien? Se si prendono i Summoning, che hanno impostato l'intera
carriera sui suoi scritti, si può dire che la musica degli austriaci, per
quanto evocativa, rappresenta solo una parte della vasta visione artistica
dell'autore, concentrandosi essi solo sulla parte oscura, malefica, torbida,
tralasciando tutto il resto: si va così a perdere un'immane ricchezza di
sfumature che compongono la cosmologia tolkieniana,
sacrificata perché si suona black-metal e non si può indugiare sui "buoni
sentimenti". Se dunque i cosiddetti inventori del Tolkien-metal ci restituiscono una visione mutilata dell'arte del
loro ispiratore, cosa dovremmo pensare di tutto il resto (che si presuppone
tratti il tema con maggior superficialità)?
Probabilmente Giorgianni non se ne rende conto fino
in fondo, come l'innamorato vede speciale la sua modesta spasimante (il metal
in questo caso, nel suo rapporto con Tolkien), altrimenti non si sarebbe
cimentato nell'impresa di considerare questa lunga schiera di osservatori e
pensatori mediocri, questi "parolieri" e "pittori" del
metallo, che scrivono testi e musiche semplificando qualcosa che è ben più
complesso di una saga di avventure immaginarie.
Tolta la passione, che conferisce linfa vitale ad
ogni piega del discorso, quello che probabilmente rimane di questa
dissertazione (salvo qualche eccezione come i Blind Guardian, la cui tavolozza è ricca di colori e quindi
capace di ritrarre in modo adeguato la complessità di certi "intrecci di
sensazioni" tolkieniani) è una compilazione
enciclopedica di contributi irrilevanti, forse un esercizio intellettuale (una caccia al tessssoro, potremmo dire) in cui l'autore sembra più
assecondare una sua esigenza interiore che fare un reale servigio alla collettività.
Il mio, si sarà capito, è più un processo
alle intenzioni che altro.
Benché non esista una lettura univoca di un'opera, e
ciascuno sia fieramente libero di rapportarsi ad essa come può o come meglio
crede, di sicuro le lenti del metal non mi sembrano il miglior modo per rendere
giustizia alla grandezza di Tolkien, o dare significative interpretazioni della
sua opera.
Come del resto non fa bene al metal, sempre più
attorcigliato in se stesso, ristagnare nei soliti temi del fantasy, quando invece, per il bene di tutti, sarebbe opportuno
individuare spunti di maggior stimolo (per esempio gli Ocean che osano confrontarsi con Il Grande Inquisitore di Dostoevskij
e persino con il cinema di Tarkovskij!).
La lettura de “Il Signore del Metallo..." è dunque
rassicurante, quando però sarebbe il momento di sorprendersi, di pretendere
di sorprendersi, perché sorprendenti
(o strane, o anche mostruose innanzi alle coscienze non abituate) sono sempre
state quelle grandi cose che hanno
decretato i grandi cambiamenti (Lou Reed che iniziò a cantare
dell'eroina o Leonard Cohen di
tragedie bibliche mentre i collettivi del Flower
Power giocavano ancora con l'LSD, sguazzando in consunte utopie).
Questa lettura, infine, mi evoca l'idea di un metal
ancora bambino, che non ha voglia, non ha l'ambizione, il coraggio di
andare oltre i soliti cliché: schemi
che ci offrono sicurezze, ma che al tempo stesso ci intrappolano in una
dimensione di "nerd
paciocconi" che non meritiamo assolutamente, considerato il valore della
nostra musica e dei nostri musicisti.
A tutti gli altri, dunque, buona lettura…