Il cielo era il tuo campo da
gioco / ma la fredda terra era il tuo letto […]
Non avrei mai voluto scrivere
queste parole per te / pagine con le frasi di tutte le cose che non faremo mai…
(“Say hello 2 heaven” – C. Cornell)
No Chris, nemmeno io avrei mai volute
scrivere queste parole per te…
La notizia arriva tra capo e
collo giovedi mattina, mentre sono a lavoro, ed è una mazzata: Chris Cornell è morto e non si sa neppure
perché (lo si saprà ore più tardi e probabilmente sarebbe stato meglio non
saperlo).
Tornato a casa provo a buttare
giù queste righe, di getto, d’istinto, ma sono confuso perché tanti pensieri
affollano la mente. Soprattutto i ricordi di quando
negli anni universitari, nella mia cameretta, ascoltavo a tutto volume “Superunknown” o “Down on the upside”, provando a fare il verso di Chris, con i testi
alla mano dei suoi brani.
Casualità: proprio un paio di mesi fa ero
andato, chissà perché, a riprendermi, per “ripassarlo” bene, quel mattone
colossale di “Badmotorfinger”.
Quanto era cazzuto, duro, fottutamente metal quel disco. A partire dalla
copertina.
Certo, i Soundgarden sono sempre
stati annoverati nell’ambito del grunge; ma il grunge mica era un monolite fatto e finito! No,
aveva diverse diramazioni, diverse modalità di approcciare ciò che lo aveva
fatto nascere, che lo aveva prodotto: quel
male di vivere, quel senso di emarginazione e vuoto; quel disorientamento
che, se sei debole, ti fa precipitare nelle braccia della droga e non ti fa vedere un domani. Droga che alla fine ti ammazza,
come successo ad Andrew Wood,
cantante dei Mother Love Bone, grande amico di Chris e per ricordare il quale Cornell creò, assieme ai restanti membri dei MLB e alcuni componenti dei Pearl Jam, i
fantastici Temple of the Dog, il cui
unico e omonimo disco del 1991 è, per chi scrive, il più grande album grunge di
sempre (assieme a “Core” degli Stone Temple Pilots).
Chris e i Soundgarden, binomio automatico. Sono stati i migliori i Soundgarden, almeno in quello che potremmo definire il ramo metallico del grunge. I migliori grazia a Cornell, grazie alla sua voce, che sapeva essere
flebile e soffusa come scorticante e abrasiva, di una potenza pazzesca che tanti metal singer se la
sognano. E furoono i migliori anche grazie ai suoi testi intelligenti, provocatori, mai banali.
Non lo seguivo più da tanto
Chris. Direi proprio da quel “Down on the upside” del 1996, un album diseguale,
complesso, dove c’è un po’ di tutto. Difficile da assimilare. Ma in realtà era un album con i controrazzi, dove
il genio di Kim Tahyil, chitarrista fondamentale per il successo dei Sondgarden, si esprimeva in tutta la sua versatilità. Dopo quel
disco, a causa di dissidi interni e stress correlato, seguì lo scioglimento
della band.
Comunque no, preso ormai da altre sonorità
in quella fertile metà degli anni novanta, non avevo seguito Chris negli
Audioslave e nella sua carriera solista. Ma mi è sempre rimasto nel cuore e
nella mente, come un retropensiero che regolarmente si affaccia. E questo non mi capita con tanti altri
musicisti. Qualcosa vorrà dire.
Il ricordo chiaro che ho di lui è
sul palco, in jeans sdruciti e canotta sudata, a braccia larghe e occhi chiusi
a cantare “Jesus Christ Pose”. Ma forse adesso ha più senso salutarlo
utilizzando per lui quelle splendide parole che aveva scritto per Andrew, oltre
un quarto di secolo fa; due anime fragili che ci piace immaginare adesso ancora
una volta a dividere una camera, parlando di musica, da fraterni amici...
I’m warm from the candle
Though I feel too cold to burn
He came from an island
And he died from the treet
And he hurt so bad like a soul breaking
But he never said nothing to me
So…SAY HELLO TO HEAVEN
A cura di Morningrise