Ormai lo avrete capito, a noi
piacciono gli Ulver: solo nell'ultimo anno li avremo trattati almeno sei o sette volte.
Oggi parliamo di un album da noi un po' snobbato, "Blood Inside", ed in particolare di "Operator", traccia numero nove. Non una recensione, dunque, ma un'analisi inedita della visione sociologica dei Lupi.
Oggi parliamo di un album da noi un po' snobbato, "Blood Inside", ed in particolare di "Operator", traccia numero nove. Non una recensione, dunque, ma un'analisi inedita della visione sociologica dei Lupi.
"Blood Inside", rilasciato nel 2005, non ci ha mai convinto al 100%: sebbene esso portasse con sé
la buona notizia di un ritorno a tempo pieno di Kristoffer Rygg dietro al microfono, le nuove composizioni facevano
emergere il lato più pasticcione dei norvegesi, che per l'occasione decidevano
di lasciarsi alle spalle quel rigore minimalista che li aveva salvati nelle
prove precedenti (e che li avrebbe poi salvati in quelle appena successive).
Troppa carne al fuoco (elettronica, ambient, pop, prog, jazz, avanguardia, musica classica ecc.) ed una integrazione fra le varie componenti non sempre impeccabile. Molti spunti interessanti diluiti in un clima di dispersione che sviliva l'encomiabile sforzo creativo dei Nostri.
Episodio migliore del lotto, a mio parere, la già citata "Operator". Ma per comprenderne il reale valore é necessario parlare prima del brano precedente, la speculare "Your Call", con la quale si istaura un complesso gioco di specchi e rimandi.
Troppa carne al fuoco (elettronica, ambient, pop, prog, jazz, avanguardia, musica classica ecc.) ed una integrazione fra le varie componenti non sempre impeccabile. Molti spunti interessanti diluiti in un clima di dispersione che sviliva l'encomiabile sforzo creativo dei Nostri.
Episodio migliore del lotto, a mio parere, la già citata "Operator". Ma per comprenderne il reale valore é necessario parlare prima del brano precedente, la speculare "Your Call", con la quale si istaura un complesso gioco di specchi e rimandi.
Tutti i brani di “Blood Inside” sono accomunati da un unico filo conduttore: il fil rouge del sangue. Il sangue, richiamato fin dal titolo, è simbolo della vita. Cromaticamente il rosso del sangue si impone sullo sfondo di un "bianco ospedaliero" (in copertina campeggia una croce rossa; i componenti della band, per il set fotografico, si mascherarono da chirurghi): non altro che una metafora per rappresentare la visione critica dei norvegesi nei confronti della nostra società.
Sebbene una componente di
"denuncia" sia sempre stata presente negli album degli Ulver, almeno da "Perdition City" in poi, personalmente parlando ho sempre
preferito i Lupi introspettivi,
spirituali, metafisici: quelli di "Shadows of the Sun" e "Messe
I.X-VI.X". Eppure in "Blood Inside", forse l'opera più "sociale" dei norvegesi, troviamo spaccati di
nevrosi contemporanea così efficacemente tratteggiati da innalzare l'operato dei Nostri ai ranghi di coloro che nella storia del rock e simili hanno saputo mettere in scena i mali della nostra epoca (Kraftwerk, Talking Heads, Einsturzende Neubauten, Scott Walker, Radiohead sono solo i primi nomi che mi vengono in mente).
Quello degli Ulver è un mondo
popolato da cadaveri, corpi di persone decedute nella solitudine e moribondi
affetti dalla medesima solitudine. Paure e nevrosi sfrecciano in asettici
corridoi di un ospedale fra l'indifferenza burocratica e l'assenza di emozioni,
mentre l'umanità stessa è in sala rianimazione riversa su un freddo tavolo
operatorio: uno scavo esistenziale che si spinge così a fondo da squarciare la carne ed affondare nelle viscere, nel sangue caldo che ancora scorre sotto
una spessa scorza di fibre morte. Proprio nella doppietta
di brani finali troviamo le immagini più penetranti di questa cinica
rappresentazione.
"Your Call" ("La tua chiamata") è costruita su
arrangiamenti di archi e ci introduce in un ambiente desolante che pare essere
una sala d'aspetto di un pronto soccorso. Nel sottofondo squilla a vuoto un
telefono.
"Chi c'è qui a tenerti la
mano, nell'oscurità, dove nessuno risponde al telefono?". Più avanti:
"Se lampeggia la luce rossa non allarmatevi, qualcuno sta morendo...senza
nessuno con cui parlare". Persino "il sole sta aspettando" in
questo clima irrisolto di inquieta ed angosciante attesa.
Il brano si conclude con gorgheggi eterei di voce femminile e fendenti di viola. Mano a mano che la
musica si dilegua, ecco riemergere il suono intermittente di quel telefono che
avevamo dimenticato fra le carezze degli archi.
Il telefono continua a squillare, fin quando l'operatore
(operatrice) risponde: irrompe "Operator",
l'episodio più violento dell'album. Il brano si impone alle nostre orecchie come un panzer
elettronico di percussioni schiacciasassi, bordate di synth e fiati incalzanti: un dinamismo che richiamerebbe quasi il
black metal delle origini, se prima non venissero in mente gli sberleffi
sinfonici degli Arcturus, altra
incarnazione delle visioni artistiche di Rygg.
Sul filo sottile del legame
concettuale che lega i due brani viene operato un brusco cambio di prospettiva:
siamo adesso dall'altra parte della cornetta, ancora fuori nel mondo, bisognosi
di cure. Qualcuno sta chiamando il centralino dell'ospedale.
La visione degli Ulver, in
questo senso è kafkiana. Ricordate il
protagonista de "La Metamorfosi" che una mattina si sveglia inspiegabilmente con le fattezze di uno scarafaggio,
ma la cui unica preoccupazione, innanzi al potenziale orrore di un tale stato di
cose, è trovare un modo per giustificarsi con gli altri e portare avanti la sua
routine quotidiana? Al pari l'homo
faber angosciato dall’altro capo del ricevitore è un essere che cerca una
soluzione ai propri problemi (frutto di contraddizioni insanabili del suo modo
di vivere) tramite il canale istituzionalizzato del call-center.
"Operator" è una
disperata richiesta d'aiuto in cui il canto obliquo di Rygg (che sembra un King Diamond alienato e corroso
internamente dal "logorio del mondo moderno") accentua i contorni
inquietanti e grotteschi di questo disagio totalmente fuori controllo.
"Qua niente funziona,
Santo Cielo!", recita il testo. Neppure l'assolo disarmonico di Mike Keneally (già collaboratore di Frank Zappa) fa notizia in questa
rincorsa per la sopravvivenza emotiva/mentale/fisica,
scandita per l'occasione dalle forti braccia di un batterista in carne ed ossa.
"Mi
potete aiutare?
Siamo
soli"
Parole che emergono
prepotentemente dalla voragine che si spalanca all'improvviso fra le trame dense e complesse degli arrangiamenti: il ritmo rallenta per un attimo, poi il battito
accelera di nuovo e il brano riprende la sua folle corsa incalzata da un
falsetto surreale. Non può che venire in mente, in un'ottica più tragica, la
figura del Bianconiglio di Alice nel Paese delle Meraviglie.
Quando tutto farebbe
presupporre che niente cambierà (non ci si può fermare, del resto, non c'è
tempo, bisogna correre), ecco che giungono finalmente le parole rivelatrici: stralci di consapevolezza che emergono dal
marasma cacofonico degli arrangiamenti che mescolano efficacemente elettronica
e rock:
"La Verità è un ospedale, per favore sii paziente, attendi in linea".
"La Verità è un ospedale, per favore sii paziente, attendi in linea".
Ma
per quanto? "Your Call" si congedava con
l'immagine paradossale del sole messo nelle condizioni di dover attendere: quello
stesso Sole che in tutte le culture pagane (e gli Ulver ne sanno qualcosa) è
l'entità superiore per eccellenza, la maestà divina, l'oracolo nel cielo che
ogni giorno puntualmente porta la luce e la vita su un mondo oscurato. E se può
(o deve) aspettare persino il Sole, figuriamoci quale sarà l'attesa di una
umanità derelitta, spezzata, frammentata: una pioggia di monadi che fioccano in
un abisso di insensatezze.
La Verità, intesa in un'ottica tradizionalista come un insieme stabile di valori condivisi, è la
cura ("Truth is a hospital") innanzi al vacuo e al volubile: una salvezza che dovrà passare
necessariamente da una lunga attesa e successivamente dal trauma di
un'operazione a cuore aperto.
Povera
umanità.