Qualche
giorno fa, a circa due anni di distanza dal fortunato “The Raven that Refused
to Sing (And Other Stories)”, è uscito “Hand. Cannot.
Erase”, ultimo parto discografico del
prolifico Steven Wilson. (Iper)attivo dal 1987, oggi Wilson è senza
dubbio una figura di riferimento per quel coacervo di odierne tendenze che, in
maniera approssimativa, possiamo definire neo-prog.
Se volessimo riassumere in poche battute il percorso del
musicista inglese, dovremmo sicuramente far cenno alla traiettoria tracciata nel
corso degli anni dai suoi Porcupine Tree: dalle origini psichedeliche,
al pop raffinato della fase di mezzo, fino al prog tinteggiato di
metal dell’incarnazione più recente. Lungo questa direttrice, vero punto di
snodo è stato l’incontro con il leader degli Opeth Mikael Akerfeldt, un processo
di “osmosi artistica” destinato ad influire sul cammino di entrambe le
formazioni: se gli Opeth si dirigeranno sempre più caparbiamente verso lidi
progressivi, i Portupine Tree, grazie ad uno speculare irrobustimento dei
suoni, sapranno imporsi all’attenzione del pubblico metal. Per Wilson questa
tappa diviene cruciale grazie alla maggior visibilità che la sua creatura
(fenomeno di nicchia fino a poco tempo prima) otterrà grazie all’interesse crescente
da parte della vorace platea metallica. Da lì, dunque, le collaborazioni sempre
più prestigiose, gli svariati progetti artistici, le attività come produttore, l’opera
di rimasterizzazione dei grandi classici del catalogo di King Crimson, Jethro
Tull ed altri mostri sacri della musica rock. Fino alla carriera solista, che
consacra Wilson quale guru della musica progressiva contemporanea.
Perché il leader factotum padre-padrone di una band,
sulla quale ha il più assoluto controllo, decide un giorno di avviare una carriera
solista riproponendo più o meno lo stesso sound, lasciando per giunta
maggiore spazio all’estro dei propri collaboratori? Chi nei Porcupine Tree lo
ostacolava? Chi lo limitava? Il Richard Barbieri che deve la sua seconda vita
artistica a Wilson? Il succube orsacchiotto Colin Edwin? Il tele-comandato
Gavin Harrison? E se anche costoro non avessero assecondato le sue aspettative,
non avrebbe potuto, egli, sostituirli con altri a lui più congeniali? Fatto sta
che nelle opere uscite a suo nome, Wilson cambia modus operandi: scrive
e dirige, ma lascia lo sbattimento agli altri, laddove nei Porcupine tutto si
reggeva sulle sue spalle. Vederlo sul palco oggi (soliti piedi scalzi ed
occhialini da sole), rilassato, niente-fare/tutto-fare, seduto dietro ad
un piano elettrico (costruito appositamente per lui), oppure che imbraccia una
delle sue sedici chitarre (che prontamente gli passa un umile servitore), o cantare
un paio di strofe e poi mollare tutto e dare indicazioni al fonico, mentre gli
altri si accollano progressioni, fughe soliste, menate assortite, è una visione
che avvalora la tesi secondo cui Wilson sia passato dall’artigianato alla
produzione ambiziosa. In tutto questo, egli conserva le sue qualità di raffinato
compositore, avveduto sound-designer e musicista dalle
ampie vedute, e la sua musica mantiene un equilibrio ed una ruffianeria che
gli valgono, artisticamente ed in termini di accoglienza del pubblico, un
successo che giunge finalmente dopo quasi trent’anni di onorata gavetta.
Ma non sono forse ruffiani anche i Dream Theater,
quando scimmiottano i Metallica, quando inseguono i Tool, quando ricercano il
singolo di successo finendo per assomigliare ai Muse? Cercando di assicurarsi
la benevolenza dei metallari, e dei cultori della musica progressiva e, perché
no?, degli ascoltatori più distratti? Con la dipartita dell’egocentrico
Portnoy, i DT raggiungono un equilibrio interno più soddisfacente e delle
movenze più fluide, ma i nuovi brani rimangono stucchevoli e pretenziosi, mentre
lo sfoggio della pura tecnica non basta evidentemente per compensare
un’ispirazione innegabilmente calante. Perché allora Wilson lo fa meglio?
Lo spiegava lo stesso Wilson a Rudess, mentre insieme lavoravano ad
“Insurgentes”: Meno note, Jordan, e più buone! Non che Wilson non sappia
suonare, è solo che dimostra di possedere, unitamente ad altre qualità, un maggior
senso della misura. Anche lui scrive composizioni lunghe e tortuose, ed anche
lui indugia spesso sui virtuosismi (i musicisti di cui si è contornato sono dei
veri prodigi, gente che può fare tutto quello che le si chiede: vai piano,
vai veloce, vai adesso, stop!), ma i suoi brani risultano meno dispersivi,
più asciutti, e in essi le soluzioni, ben centellinate, vengono valorizzate al
massimo. Fra pop orecchiabile, audaci progressioni, irruenti esplosioni e
placidi momenti folk/cantautoriali, la formula di Wilson, che annette anche
pattern elettronici (non si fa mancare niente, Wilson), ha un equilibrio che i
DT neanche si sognano.
Gli Opeth dell’amico/discepolo Akerfeldt hanno perfezionato
una formula non dissimile da quella del “maestro”, sebbene lo sguardo degli
svedesi si proietti con maggiore ostinazione verso orizzonti di settantiana
memoria. Ma se anche Wilson pesca a piene mani dal medesimo calderone, perché
allora gli Opeth sanno di già sentito? Perché i loro album sembrano collage di
pezzi tratti dal repertorio delle grandi glorie del prog? Perché, in
definitiva, si ha l’impressione che Akerfeldt copi e Wilson no? Difficile a
dirsi: forse perché Akerfeldt è un bifolco nato e cresciuto a pane e Morbid
Angel, e solo in tarda età ha deciso di confrontarsi con il rock progressivo
dei vari Camel, EL&P e Van der Graaf Generator. Mentre Wilson, che ha
introiettato quelle influenze fin dalla tenera età, ci pare oggi più disinvolto
nel maneggiarle. Entrambi rimangono essenzialmente degli appassionati, dei fan
fortunati prestati al mestiere dei musicanti, ma Wilson, probabilmente per
l’esperienza maturata dietro al mixer, riesce a far incastrare decisamente bene
i tasselli nel mosaico; Akerfeldt invece, da quando ha abbandonato la veste del
deathster illuminato, non riesce a convincere. Forse vale semplicemente
la regola per cui sta meglio un gentleman in ciabatte che un maiale con
la cravatta.
E così “Hand. Cannot. Erase” è la summa dell’intera
carriera di Wilson: un lavoro confezionato con la consueta professionalità,
capace di sviluppare quanto di buono germinato nelle due prove precedenti (il
colossale “Grace for Drowning” e il gioiellino “The Raven that Refused to
Sing”), rianimando certe atmosfere “dark” esplorate con il primo “Insurgentes”,
ed aggiungendo di traverso persino qualche novità (l’utilizzo, per esempio, di
una voce femminile – ricordiamo che l’opera è un concept basato
sulla storia vera di Joyce Carol Vincent, ritrovata morta nel suo appartamento
dopo tre anni dal suo decesso, senza che nessuno se ne fosse accorto). I temi della solitudine e dell’atomizzazione della
nostra società, del resto, non sono nuovi per Wilson, malinconico cantore delle
afflizioni della contemporaneità.
Senso di déjà-vu, dunque? Nemmeno l’ombra: Wilson allestisce
l’ennesimo suo prodotto di qualità, certificando lo stato di grazia
attualmente vissuto e consolidando una seconda esistenza artistica che oramai
sembra aver soppiantato definitivamente la dimensione “porcospina”.
Scansata, in parte, la deriva citazionista (unica piaga delle
ultime eccellenti prestazioni), Wilson riconduce nella sua esperienza solista
qualche guizzo della sua antica personalità, ben espressa nella sua band madre,
riportandoci così all’autenticità di certe emozioni che ancora eravamo in grado
di provare ai tempi di “In Absentia”, ultimo suo lavoro davvero convincente a
firma Porcupine Tree.
Cosicché, in un sol colpo, finisce furbescamente per
accontentare proprio tutti: fan dei Porcupine Tree, giovani metallari aperti di
mente, power-metallari alla ricerca di pompose e barocche ambientazioni,
goth-metallari con il debole per le atmosfere patinate, nostalgici dell’antica
tradizione prog, patiti dell’introspezione, amanti del rock a tutto tondo. Tutti
d’accordo: pubblico e carta stampata, tant’è che neppure i critici con il palo
in culo della stampa specializzata se la sentono, questa volta, di andargli
contro.
VOTO: 8