Nessuno
lo può più frenare, nessuno gli può più impedire di far cazzate. La formazione
si è ridotta ad una compagine di mesti esecutori del suo volere, assoldati per
dire “si”, oppure “grande Akerfeldt, sei il migliore, un’idea così non ce l’ha
avuta nemmeno Petrucci..ehm..Robert Fripp!”. L’unica voce rimasta degna di
essere ascoltata è quella di Steven Wilson. Ma Wilson ed Akerfeldt
insieme è come dire “Scemo + Scemo”: se Akerfeldt è un coglione, Wilson
è un coglione al quadrato. Impossibile pretendere che Wilson suggerisca
sobrietà e cautela ad Akerfeldt. Sarebbe come avere un problema con l’alcool e chiedere
a Lemmy di darti una mano a superarlo (sì, magari bevendoci sopra…).
Dopo
la carrellata degli incipit degli album degli Opeth, quando gli svedesi erano
una band fatta di bravi ragazzi, onesti e con quella giusta dose di pepe al
culo per poter dare ogni volta il meglio di sé (vedi la prima parte), giungiamo
finalmente a dove volevamo arrivare, ossia il punto esatto in cui casca l’asino.
Esce
“Heritage”, il più controverso e spiazzante degli album degli Opeth. Tanto
per cominciare il growl viene abbandonato definitivamente. Di death non
ce n’è più. Ma anche di metal non è che ve ne sia rimasto molto! Non che sia un
problema (nel 2001 eravamo fra quelli che chiedevano a gran voce l’album
acustico degli Opeth!), ma l’atto di arroganza è importante: Akerfeldt non solo
si è fatto crescere dei pessimi baffi in stile Frank Zappa, ma decide di
snaturare la personalità della sua band per trasformarla nel freddo laboratorio
delle sue ambizioni. Ma è solo come un cane, basta vederlo nella foto del cd
che, con quei baffi di merda, gesticola per dare indicazioni a tutti su cosa
devono suonare e come farlo. Ma sostanzialmente è un uomo solo. Anche il
tastierista Per Wiberg (entrato in formazione in “Ghost Reveries”)
decide di abbandonare la baracca (dettaglio esplicitamente suggerito dalla
copertina, dove simpaticamente la testa di Wiberg, invece di essere appesa a
mo’ di frutto ai rami dell’albero della genialità insieme a quelle degli
altri componenti della band, è già a terra ad imputridire).
Ma
torniamo ai nostri incipit: l’apertura viene affidata ad un pezzo che, se
si guarda bene, è avulso rispetto al resto dell’album. Si tratta di una traccia
pianistica di un paio di minuti circa (la titletrack), eseguita dal
nuovo tastierista (non ancora ufficialmente in formazione) Joakim Svalberg,
entrato in pianta stabile dopo la dipartita di Wiberg. Il brano non è però la
tipica introduzione pianistica: quella pomposa, o malinconica, o tragica che
potrebbe farti una band metal qualsiasi che assolda un nerd diplomato al
conservatorio qualsiasi. No, è un giro sornione che vagamente ricorda un compositore
come Satie. Atto di spocchia assoluta (ao, manco i Dream Theater
c’hanno avuto un’idea così!).
Più
che altro mi pare che qui Akerfeldt abbia proprio cagato fuori dal vaso. Con
“Heritage”, anzitutto, si toglie ogni sfizio da fan (qui copio i King
Crimson, qua i Rainbow, là gli Area) ed ogni sfizio da
intenditore (dell’ultima ora), disseminando per tutto l’album dotti richiami
alla tradizione dark-progressive, anche quella più nascosta (Van der Graaf
Generator, High Tide, Black Widow ecc.), di cui fra l’altro l’album
scippa il mood cupo e stregonesco (tanto per azzerare le ultime
possibili critiche). Rifinisce infine gli arrangiamenti, cura i suoni nei
minimi particolari ed allestisce l’album (nella sua testa) perfetto (non
preoccupandosi di aver perso nel frattempo la personalità). E, a fine
registrazione, toh!, l’Akerfeldt ci butta dentro anche l’intro
pianistico à la Satie . E lo fa quasi con noncuranza, con lo spirito di
chi fa palestra tutto l’anno, ed una sera a cena ordina una bistecca, due
bistecche, tre contorni (pure il fritto!), ci butta sopra un paio di litrate
di buon vino rosso ed alla fine, pieno come un porco, per sola gola, chiude il
pasto con una panna cotta che non ci stava un cazzo (più caffè, ammazzacaffè ed
una birra da sessantasei presa dal bengalino aperto tutta la notte, prima di
andare a casa!). Per poi cosa? L’album guadagnerà forse nuovi ammiratori sul
versante neo-prog (trainato dai successi solisti di Wilson), ma farà sicuramente
fermentare serie perplessità nello zoccolo duro dei fan. E in questo caso, la
verità non sta nel mezzo, questa volta hanno ragione i metallari, che, quanto a
cuore, ci vedono meglio di tutti: “Heritage” avrà anche degli spunti
interessanti, ma rimane un album francamente poco ispirato, privo di sentimento
ed eccessivamente di maniera.
Che
l’abbia capito anche Akefeldt? Con “Pale Communion” la diarrea è dietro
l’angolo, la sgommata di merda nelle mutande un rischio tangibile. Glielo avevano
detto: fai cagare, Akerfeldt! Ha sputtanato gli Opeth, sei un fasullo, la
tua musica è tutt’uncopiancolla. Ma Akerfeldt non ama le critiche ed
è troppo fiero per tornare indietro ed ammettere di aver sbagliato. Decide perciò
di procedere rincarando la dose. Akerfeldt crede in quello che fa, ma l’inizio
di “Pale Communion” tradisce qualche incertezza e merita di essere analizzato.
La
canzone in questione è “Eternal Rains Will Come”. Partiamo con due dati
tecnici: dura 6 minuti e 43 secondi, ma prima che Akerfeldt emetta il
primo vagito passano 3 minuti e 8 secondi (quasi la metà del brano!). Cosa
succede in quel lasso di tempo? Metal Mirror lo ha scoperto per voi:
- 3
secondi: controtempi al cardiopalma, stacco prog classico in stile “Tarkus” (Emerson,
Lake & Palmer), poi prevedibile pausa-imprevedibile;
- 9
secondi: la batteria monta e monta sempre di più, accompagnata dall’imperante organaccio
in un crescendo che conduce a qualcos’altro;
- 7
secondi: attaccano finalmente le chitarre in una micro-porzione di arrembante rock
che pare sia in procinto di spalancare la situazione a cose grandiose. In
realtà tutto di colpo si ferma nuovamente per…
- 15
secondi: arpeggio di basso inquietante e cauto sottofondo jazzato, come
se qualcosa (di malvagio) potesse succedere da un momento all’altro;
- 41
secondi: l’organo hammond si rimette a sminestrare numeri da capogiro: è evidentemente
una grande festa di musica!
- 45
secondi: tutto si ferma nuovamente per lasciare spazio alla quiete di un pianoforte
vagamente sinistro (sensi di colpa galoppanti per Akerfeldt: sarò stato
troppo “buono”, gioioso? Cosa diranno di me? Devo subito imprimere malvagità
con atmosfere horror!);
32
secondi: riattacca l’organo solenne ed indefesso, delineando finalmente il tema
portante del brano (che poi, senza ironia, è l’ennesima variazione di “Tarkus”
degli EL&P);
Al
punto 3:08 entra la voce di Akerfeldt e possiamo considerare il brano ufficialmente
iniziato.
Non
ho studiato psicologia, ma in questo inizio convulsivo/compulsivo io ci
leggo che Akerfeldt si è sentito in dovere di dimostrare (al pubblico, a Wilson
e forse a se stesso) che:
- sa
suonare
- ha
cultura musicale
- se
ne intende di prog
- se
ne intende di jazz
-
gli piacciono le atmosfere dark
- sa
integrare mondi diversi
- è
oramai più un regista che un musicista (visto che di chitarra ce n’è poca e
lascia fare tutto agli altri)
-
non gli piacciono le soluzioni lineari e scontate
- sa
essere dolce, epico, aggressivo, intelligente, intellettuale, raffinato
(qualcuno cerca marito?)
E… se
a voi tutto questo non piace, dovete almeno ammettere tutte le cose di cui
sopra!
Bene,
detto questo, un’ultima serie di quesiti che ci tolgono il sonno:
- L’Akerfeld
è definitivamente finito come artista? Da lui dovremo aspettarci non altro che
album forzatamente sempre diversi, forzatamente meno metal, forzatamente (forse
un giorno) meno rock?
-
Tornerà invece l’Akerfeldt a cantare in growl? Tornerà indietro l’Akerfeldt
come hanno fatto tutti gli altri? Paradise Lost, Moonspell, My
Dying Bride ecc.? E, se lo farà, tornerà a piacerci?
A
difesa di Akerfeldt, però, c’è da dire una cosa: “Pale Communion”
è il suo undicesimo album…ecco, ho detto tutto. È anche lecito aspettarsi che
un talento nel tempo si spenga. Che cosa facevano i Led Zeppelin
all’undicesimo album? Manco più esistevano, ecco che cosa facevano i Led
Zeppelin.
Pertanto
Akerfeldt va preso per quello che è: un guascone che sfornerà un disco
dignitoso ogni tre anni. A noi, tutto sommato, sta bene. Più che altro andrebbe
spiegato a lui, così si tranquillizza e si mette il cuore in pace.