Conclusasi
la rassegna delle dieci più atroci canzoni d’amore del metal, Metal
Mirror decide di affondare il coltello nella piaga, nella convinzione che
il tema sia meritevole di essere ulteriormente approfondito.
Laddove
l’analisi del Dottore si è sviluppata come un vera e propria sinfonia
“in crescendo” che ha inteso trattare il fenomeno dell’Amore (ed in
particolare quello della sua perdita) partendo dalla status di passività
espresso dagli Helloween, per culminare con la furia sanguinaria degli Impaled
Nazarene, noi ci sentiamo di aprire un sentiero laterale che ci conduce
niente meno che alla insospettabile saggezza dei Carcass.
La
domanda nasce spontanea: cosa potranno mai insegnarci in campo amoroso i
Carcass, campioni del gore-death-metal più truculento, autori di testi
che più che altro sembrano estratti da manuali di anatomia o chirurgia? Titoli
come “Genital Grinder”, “Vomited Anal Tract” e “Malignant
Defecation” sono eloquenti, eppure nel 1993 gli inglesi davano alle
stampe “Heartwork”, album della maturità che li traghettava verso non
preventivabili (fino ad un giorno prima) lidi melodici.
Anche
i testi delle canzoni subirono un mutamento, orientandosi verso tematiche più
complesse e per certi aspetti profonde. Fra questi testi ne troviamo proprio
uno che parla d’amore: è il caso del secondo singolo scelto per promuovere
l’album, “No Love Lost”, che non è proprio la canzone d’amore che
potrebbe farti Bon Jovi o Grignani. Vediamo dunque cosa i Carcass (o meglio Jeff
Walker, cantante/bassista, nonché autore del testo) volessero raccontarci
con questo brano dall’insolito testo per una band dedita al death metal.
Ad
un primo sguardo non si rinvengono particolari significati in liriche di questo
tenore:
Risveglio
sensuale
Il
sentimento che intorpidisce è morto
Concezione
romanzata
Il
sintetizzato cuore spezzato deve sanguinare
Il
death non è certo musica per poeti ed anche la metrica che deve rispettare chi
canta in growl o in screaming (come Walker, in questo album
sempre più acido e digrignante) non si presta a divenire spazio ideale per l’esposizione
di concetti chissà quanto complessi. Ad eccezione di Chuck Schuldiner
(che riusciva a scrivere testi intelligenti dai penetranti risvolti
sociologici, e a conferire loro, grazie anche a quel modo tagliente e spigoloso
di articolare le parole, sfumature che andavano dal cinico al sentimentale) e di
pochi altri (mi vengono in mente i testi filosofici scaturiti dalla penna dell’indimenticato Marco
Foddis, batterista e paroliere dei Pestilence), a parte questi sporadici
casi, un testo death metal è spesso un elenco: di parole (spesso richiamanti un
immaginario nefasto), di azioni (spesso violente) o, nel migliore dei casi, di
concetti (di puntuale estrazione pessimista/nichilista). Da queste prime righe,
il testo di “No Love Lost” non sembra fare eccezione. Le frasi si
susseguono scollegate: più che al significato, si guarda al suono delle parole,
adottate come strumenti per l’evocazione di un universo violento ed
ottenebrante, piuttosto che come veicolo di un messaggio dal senso compiuto. Ma
proseguiamo.
Senza
emozioni suonano le corde del tuo cuore
Strimpellate
e scisse nella memoria di una tragica serenata
(Un
coro tragico)
Senza
emozioni le corde del tuo cuore si rompono
Spezzate
e scisse nella melodia di un triste e tragico cliché
Da
un lato è palese come il modus operandi dei Carcass sia quello di proseguire
sulla strada del macabro non-sense, appesantendo ogni singola
enunciazione con un’aggettivazione ridondante e tendente al morboso (“tragica
serenata”, “un coro tragico”, “triste e tragico cliché”). Dall’altro però una
certa atmosfera si viene lentamente a creare. Ricordiamoci che si parla
d’amore: parole come “triste” e “tragico” sono forse scontate, ma come altro
può essere definito un amore finito, perduto, se non “triste” e “tragico”?
Il
fatto che il discorso sia formulato in seconda persona fa supporre che esso sia
rivolto verso un tu che secondo me va letto come un “tu generico”
(e quindi il messaggio è universale e vale per tutti, uomo o donna che sia), e
non come una semplice controparte femminile (la classica “lei” abbandonata). In
ogni caso, sia come sia, poco importa capire chi-lascia-chi: è evidente
che l’Io Narrante è il vincitore morale della faccenda. Ed è da quella
voce che dobbiamo aspettarci la verità svelata nel testo, la quale presto
giungerà. Di fatto il ritornello cambia completamente le carte in tavola: come
il sole che risplende appena il cielo nuvoloso si apre, una insospettabile
saggezza scaturisce da quella che poteva sembrare una normalissima manfrina sul
mal d’amore, soltanto raccontata à la death metal, ossia in modo
cinico e rincarando forzatamente la dose sugli aspetti negativi (il death
stesso, stilisticamente, nasce come estremizzazione del thrash-metal: più
violento, più veloce, in esso l’urlo si trasforma in growl, le ritmiche
in blast-beat).
Nessun
amore (è) perduto
Quando
tutto è stato detto e compiuto
Non
c’è amore che sia perduto
Eccoci
dunque alla svolta. Quello che ci raccontano i Carcass, dietro la scorza dura
della loro musica, è una brillante intuizione che raramente abbiamo rinvenuto
nel vasto canzoniere dell’amore di tutti i tempi e di tutti i luoghi (e
di tutti i laghi, potremmo aggiungere): un amore che finisce non è un
amore perduto, un non-amore solo perché non esiste più.
L’amore,
come esperienza, è accaduto. Esso non può essere cancellato, annientato come-se-non-fosse-mai-esistito.
Non ho mai sopportato coloro che, finita una storia, rinnegano fin dall’inizio
quella stessa storia. Frasi come “Non ti ho mai amato”, “Ho solo perso tempo” sono
quasi peggio della già analizzata “Anche se mi lasci, il nostro amore non può
finire”. Capire che quel “qualcosa” è successo, irrimediabilmente ed
irreversibilmente, aiuta a sopportare la fine di quel “qualcosa” e sostenerne
il lutto.
“Nessun amore è perduto, quando tutto è stato
detto e compiuto”. Questa frase potrebbe essere interpretata nel seguente
modo: se le cose hanno avuto il loro corso fisiologico (sono nate, cresciute,
poi declinate ed infine morte) l’amore, nel momento che cessa, continua ad
esistere come esperienza (si spera positiva, o perlomeno costruttiva) come
memoria e come bagaglio esperienziale: non è stato tempo perso, non è stata un
vuoto incantesimo, una fase di non-vissuto. Un po’ come la vita, destinata a
finire o a cambiare forma: accettare questo significa accettare la vita stessa,
come il trascorrere delle stagioni, lo spettacolo della natura che muore per
rinascere, gli elementi che si mescolano e ricompongono nel sempiterno mutare
dell’esistenza. Attaccarsi all’eco di ciò che si è perduto e non impiegare le
energie verso il nuovo, nell’ineluttabile mutare delle cose, nell’inarrestabile
metamorfosi della vita che si tramuta in morte e nuovamente in vita, significa
per davvero perdere tempo. Perdere.
Attaccarsi
alla fine di una storia (piangendo, disperandosi, deprimendosi o, stalkizzando
il proprio partner) è infatti la stessa cosa che attaccarsi alla vita
non comprendendone la natura necessariamente temporanea (almeno nella sua
accezione terrena, che poi è l’unica veramente importante perché l’unica che
possiamo conoscere finché siamo vivi). Niente è per sempre, tanto meno l’amore:
per questo credere nell’immortalità dell’amore è un’illusione che si dovrà
gioco forza scontrare con la realtà e con l’esperienza. Credere nella sua
inevitabile fine, è invece l’unico modo per poter vivere con onestà e pienezza
il sentimento dell’amore, che è il sentimento caduco per antonomasia.
Saggio
messaggio di matura e consapevole (ed anche dolorosa) accettazione, che può
essere visto di grande consolazione in un contesto di morte e lutto, sebbene
esso poggi su una visione cinica e disillusa dell’amore. Ma del resto una band
death-metal della vecchia scuola non poteva cantare quanto fosse bello
l’amore. Basti vedere come continua
il testo:
Il
basso costo dell’amare
Languida
farsa
L’umana
fragilità e debolezza
Son
facili prede
Come
sanguinerà il tuo infelice cuore?
Ma
nonostante quelle forzature che sono un po’ figlie dei cliché del genere
musicale (dover essere a tutti i costi cattivi e negativi), quello che i
Carcass finiscono per insegnarci è che la precarietà non è il vero problema,
perché questa precarietà può essere valorizzata, riempita di contenuti e
significati, solo se finalmente essa viene riconosciuta ed accettata come il
modus normale di vivere: di vivere l’amore e tutto il resto delle umane
questioni. A costo di svilirne la magia una volta che le umane questioni siano
state private dell’aura luccicante dell’eternità.
In
totale coerenza con questo assunto, i Carcass si scioglieranno di lì a poco,
appena dopo l’uscita dell’album successivo, quel poco riuscito “Swansong”,
che davvero costituirà il canto del cigno per la storica formazione inglese. La
recente reunion, del resto, nemmeno la considero (chi è tornerebbe mai,
se non disperato, con un/a ex?): a me basta tornare ai primi quattro capolavori
della band, perché quando tutto è stato detto e compiuto, non vi è niente
che sia perduto.