Nel 1991 Steven Wilson debuttava discograficamente con “On
the Sunday of Life”. Il musicista inglese si muoveva dietro al monicker Porcupine Tree, che solo successivamente avrebbe rappresentato una
band vera e propria: il debutto dei Porcospini
non era altro che una raccolta di registrazioni di gioventù di Wilson che,
facendosi carico di tutti gli strumenti, si muoveva in modo naïf fra psichedelia, cantautorato, rock
sui generis e, tutto sommato, poco prog.
Nello stesso periodo Vegard Sverre Tveitan, in arte Ihsahn, metteva su con il compare Samoth quella che poi sarebbe divenuta
una delle realtà più leggendarie del black metal: gli Emperor. Certo, i Nostri si sarebbero distinti fin da subito per
una spiccata propensione sinfonica e, se vogliamo, progressiva, tuttavia ciò
addolciva di poco una proposta che, nonostante l’impiego di tastiere, rimaneva
decisamente estrema.
Nessuno all’epoca avrebbe mai potuto
lontanamente pensare che un giorno i due avrebbero albergato sotto la
medesima bandiera: quella del neo-progressive.La definizione di neo-progressive, in verità, nasceva all’inizio degli anni ottanta per indicare formazioni come Marillion, Pallas e Pendragon che, dopo il tramonto della gloriosa stagione prog degli anni settanta (offuscata dall’avvento prima del punk e poi della new wave) intendevano recuperare la perduta attitudine per l’originario spirito progressivo. Grazie a questo fermento di rinascita, i canoni del prog classico (in particolare quello più magniloquente, teatrale ed attento al lato estetico - Pink Floyd e Genesis in primis, con un occhio di riguardo al percorso solista di Peter Gabriel) venivano riletti tramite le sonorità patinate degli anni ottanta: non proprio roba per tutti i gusti (per certi versi in controtendenza con il trend minimalista dei suoni sintetici di quegli anni), ma onesto negli intenti e lodevole nei risultati.
Dopo quasi un ventennio di
distorsioni e sonorità “alternative”, da qualche anno a questa parte l’etichetta
del neo-progressive sembra essere tornata in voga, non tanto per designare
stilemi che si rifanno alla tradizione del rock progressivo classico, ma quanto
per descrivere uno spirito di libertà che sembra spingere molti artisti
contemporanei ad uscire in modo costruttivo dal formato canzone integrando
sonorità molto distanti fra loro. Se una volta il progressive intendeva
superare i confini del rock tramite una visione colta che contemplasse jazz,
musica classica, avanguardia ecc., oggi il progressive è un universo che ha
allungato i suoi tentacoli fino a toccare l’elettronica, l’ambient, il pop, il post-rock, il
metal, persino quello più estremo, senza rinnegare il punk e le sonorità alternative, da sempre antitesi del verbo progressivo tout court.
A me piace questa nuova concezione della musica prog,
sebbene da un punto di vista stilistico non presenti tratti caratteristici tali
da poter essere sistematizzata in un qualcosa
di preciso.
Torniamo dunque a Wilson, il
quale trovò maggiore visibilità paradossalmente tramite il “tanto ostracizzato”
metal, notoriamente non visto di buon occhio negli ambienti prog. Con i Porcupine Tree Wilson ha fatto sempre
ottima musica, ma quel tipo di ottima musica che, mettendo insieme
tante cose, finisce per non avere un target
di pubblico preciso. I Porcupine erano un fenomeno di passaparola, piacevano a
certa critica, ma alla fine non avevano un pubblico vero e proprio. I loro fan si disponevano a macchie di leopardo
nella più ampia geografia del rock. Questo perché i Porcospini erano troppo sofisticati per il rocker, troppo laccati
per l’amante della fumosa psichedelia, troppo ricercati per l’alta classifica e,
tutto sommato, troppo poco virtuosi per i veri segaioli del prog. Le vendite ne risentivano e nessuno avrebbe
detto (eravamo già nel nuovo millennio) che un giorno Wilson sarebbe divenuto
una sorta di guru per un nuovo
genere in un’epoca in cui i generi non sarebbero più esistiti.
Le cose cambiarono con “Blackwater Park”. “Blackwater Park” non
è un album dei Porcupine Tree, bensì degli Opeth,
che ricorsero a Wilson per la produzione. Per Akerfeldt e soci Wilson fu ben
più di un tecnico: egli fu consigliere, collaboratore e persino amico. Gli svedesi
erano già su un altro pianeta, ma la collaborazione con Wilson li lanciò su
un’altra galassia. Arrangiamenti mai sentiti nel metal, idee, finezze, preziosismi,
sfumature, cromatismi: il potenziale degli Opeth finalmente fioriva in tutta la
sua bellezza.
Nel frattempo ebbe inizio quel
movimento, in senso contrario, che avvicinò Wilson al metal. Wilson non si è
mai snaturato, ma a partire da “In
Absentia” (per proseguire con “Deadwing”,
“Fear of a Blank Planet” e “The Incident”) elementi metal hanno
iniziato a far parte della sua visione artistica. E per elementi metal
intendiamo distorsioni più pesanti, riff taglienti,
ritmiche che a tratti si facevano serrate, l’impiego della doppia cassa (eloquente
in tal senso è la porzione centrale della bellissima “Arriving Somewhere But Not Here”, che vedeva fra l’altro la
partecipazione dello stesso Akerfeldt). E così per magia Wilson iniziò a
vendere i dischi perché i metallari (che si accorsero finalmente dell’esistenza
dei Porcupine Tree) effettivamente comprano ancora dischi.
Con l’uno-due “Blackwater Park” (2001)/“In Absentia” (2002) fu innescato
a mio parere quel meccanismo che
avrebbe condotto alla nuova fase del
prog-metal. Questo processo di osmosi (da prog a metal e viceversa) si
verificò in anni in cui i Radiohead
professavano il verbo del minimalismo esistenziale, i Meshuggah imponevano il djent come nuova forma di musica
progressiva e il post-metal dei Tool
influenzava mostri sacri del prog-metal come Dream Theater e Fates
Warning (influenza lampante in album come “Six Degrees of Inner Turbulence” e “Disconnected”). Gli stessi Tool, nel 2001 con “Lateralus”, avevano imboccato una via che dilatava ed infittiva ulteriormente
le trame dei loro brani.
L’intera pangea progressista si stava dunque muovendo verso una versione del
prog più intimista che, senza rinunciare alla complessità esecutiva e
concettuale, lasciava da parte i barocchismi e il fare pomposo che avevano
significato l’obsolescenza della versione classica del genere. Da questa
nebulosa informe, emergeva chiaramente la sagoma di Wilson che con la sua
carriera solista ha successivamente rappresentato la perfetta integrazione fra tradizione e modernità,
ponendosi alla regia di una concezione della musica progressiva che connettesse
pattern
elettronici, virtuosismi rock ed
introspezione cantautoriale, con una
taratura “pop” che gli ha permesso,
nel tempo, di guardare a fasce più ampio di pubblico.
C’è da aggiungere inoltre che
un pregio enorme del Nostro è di essersi imposto da subito come autore intelligente
senza mai risultare ostico o irretito nelle sue stesse seghe mentali di musicista (trappola in cui è caduto più di un
musicista dedito al prog). Nella sua ricerca Wilson non ha mai smesso di
comunicare con i suoi ascoltatori, mettendo melodia, buon gusto ed equilibrio come basi della sua
personale ricetta.
La visione del mondo musicale
di Wilson si è poi ampliata ulteriormente. Da un lato curando
le ristampe del catalogo di band storiche come King Crimson e Jethro Tull; dall'altro operando dietro al
mixer per quelle formazioni metal che si muovevano oramai al di fuori dei confini del metal stesso. Un nome su tutti: gli Anathema, resuscitati con “We’re Here because We’re Here” proprio
sotto la supervisione artistica di Wilson. E’ da quel momento che, con band
come gli Anathema, ha iniziato a proliferare l’uso/abuso del termine
neo-progressive anche per realtà che poco avevano a che spartire con il
progressive tout court. Gli Anathema
sono proprio l'esempio migliore per rappresentare questo fenomeno: nel nuovo corso costoro avevano perlustrato il mondo
radiohediano non perdendo di vista
certa maestosità pinkfloydiana (di
marca principalmente gilmouriana)
corteggiata fin dagli esordi, ma senza mai inerpicarsi lungo progressioni che
complicassero eccessivamente i brani. L’aver iniziato ad infiocchettare i brani
con arrangiamenti elaborati e suoni molto curati è bastato a far sì che la
musica dei fratelli Cavanagh venisse
catalogata come progressiva.
Lo stesso metro è stato
utilizzato con molte altre band dagli stili estremamente diversi: Katatonia, Ulver e persino con i lavori solisti di Ihsahn, tramite i quali il Nostro ha creato una miscela avvincente
che ha saputo mettere accanto prog ed avanguardia, elettronica e metal estremo.
C’è da rilevare infatti un altro fatto interessante: il growl, lo screaming, il
metal estremo sui generis oggi non fanno più paura al prog, tanto che stanno
proliferando realtà di tutto rispetto che aggiungono alla loro variegata
ricetta ingredienti death-metal, ospitando cantanti versatili che
all’occorrenza sanno fare anche la “voce grossa” (Between Buried and Me, Ne Obliviscaris e The Contortionist giusto per citare i primi nomi che vengono in mente).
E’ chiaro, dunque, che in un
calderone di artisti dai background
lontani e promotori di sonorità altrettanto distanti, il comun denominatore non
deve essere ricercato nelle coordinate stilistiche, ma altrove. Tale trait d’union può essere rinvenuto, per
esempio, in un evento significativo come il “Be Prog!, My Friend” di Barcellona (uno dei festival più
interessanti e vari degli ultimi anni, dove fra l’altro hanno presenziato molti delle band rammentate in questo articolo). Oppure potremmo risalire al bandolo della matassa seguendo le mosse
delle case discografiche che si propongono di accudire tutte queste realtà. La storica Inside Out, per esempio, può vantare nomi di prestigio come Dream Theater, Fates Warning, Ayreon, Devin Townsend, Pain of Salvation, Shadow Gallery, Redemption,
accanto ai quali presenziano con onore i “nuovi” campioni del prog-metal come Haken, Leprous, Riverside ecc. Ma ben più interessante è la sfilza di artisti
presenti nel catalogo della più giovane Ksope, fra cui troviamo, oltre allo stesso Steven Wilson, ai suoi Porcupine Tree e ai già citati Anathema, Katatonia ed Ulver, anche proposte fresche e decisamente interessanti come Gazpacho, Lunatic Soul, Iamthemorning, The
Pinapple Thief, TesseracT, North Atlantic Oscillation ecc. In questo esercito di outsider non possiamo non segnalare gli Earthside, ultimi paladini di quel filone che potremmo definire emo-progressive (riuscito connubio fra prog e post-rock), nonché autori di quel gioiello autoprodotto che risponde al nome di "A Dream in Static".
Se volessimo individuare dei
tratti comuni in questa massa intricata di artisti, troveremmo le maggiori analogie nel
metodo e nell’approccio alla materia musicale: ricerca, produzione
professionale, attenzione ai suoni
ed alla resa sonora per valorizzare
ogni soluzione a prescindere dalla soluzione stessa. Un modus operandi che
distingue questo “genere” da tutte le altre forme intelligenti di rock e di
metal. Le stesse sonorità slabbrate e dilaniate del post-hardcore (che
fino a qualche anno fa parevano rappresentare il fronte più avanzato per quanto
riguarda innovazione ed uso della materia grigia nel metal), oggi sembrano aver
perso la loro freschezza innanzi alle sofisticherie,
sempre più spesso interessate a riscoprire i laccatissimi anni ottanta, del neo-progressive (un trend ancora una volta indicato da Wilson
con il suo ultimo lavoro “To the Bone”).
In un mondo in cui le
categorie classiche di ragionamento e classificazione smettono improvvisamente
di funzionare, risulta riconoscibile come “movimento
in fuga” a sé stante quell’amalgama
di artisti “orfani” di un genere che
possono essere accomunati in termini di attitudine.
Poco importa se fra un assolo di sax ed uno di hammond, fra riff thrash metal o beat
elettronici, salta fuori un growl, oppure
una voce trattata con il vocoder:
tutto questo è semplicemente il “nuovo neo-progressive”,
my friend....