Il Metal come veicolo di
emozioni, di espressione del Sé. Come strumento di vita.
Il Metal come esorcizzazione di
un dolore devastante, infinito, paralizzante. Come catarsi.
Il Metal come rinascita, quindi.
Filtrato dalle lenti del nostro 'essere metallari', potremmo parzialmente riassumere così il significato di “Metalhead”
(traduzione fedele dell’islandese Málmhaus), film di Ragnar
Bragason, regista islandese classe ’71. Fino a quel fatidico 2013, Bragason
si era fatto notare per alcune produzioni minori (film e serie TV) che avevano
ottenuto svariati premi solo in ambito islandese. Poi la partecipazione della
pellicola al prestigioso Toronto International Film Festival. E
l’apprezzamento unanime di pubblico e critica.
Non so quanti dei nostri lettori lo abbiano visto, posto che, a quanto mi consta, esso è reperibile solo in lingua originale con sottotitoli in inglese.
Ci pare perciò opportuno un piccolo riassunto (con spoiler, vi avvisiamo!) per capire di
cosa stiamo parlando.
Estate 1983. Aperta e isolata
campagna nel nord-est dell’Islanda. La vita della giovane Hera Karlsdóttir
e dei suoi genitori sta per essere sconvolta da un repentino avvenimento. Tanto
banale quanto irrimediabile: l’incidente mortale del figlio maggiore, Baldur.
Per Hera, allora appena 12enne (toh, anche Bragason nel 1983 aveva 12 anni e viveva in un piccolo villaggio di pescatori e agricoltori...), il passaggio dall’infanzia spensierata
all’adultità avverrà così. Brutalmente, senza preparazione, senza gli strumenti
necessari che, normalmente, si formano durante quel passaggio cruciale della
nostra vita che è l’adolescenza.
I 10 anni successivi, descritti
in modo tanto intimo quanto profondo da Bragason, costituiranno la lunga Via Crucis di Hera che, devastata dal tragico incipit, si sente letteralmente
estranea al suo mondo. Criticata dalla famiglia, presa in giro dai suoi pari
età, inadatta a seguire regole e convenzioni sociali, incapace persino
a mantenere un posto di lavoro, l’unico appiglio in grado di consentirle di non
inabissarsi del tutto è la cameretta del fratello, tappezzata di poster delle
metal band più famose, ricca dei loro vinili e cassette. Una 'miniera' tutta da
scoprire per Hera che, autodidatta, imparerà anche a suonare la chitarra
elettrica del fratello, sulla quale riprodurre i riff delle sue band preferite:
Iron Maiden, Judas Priest, Motorhead, Def Leppard, Venom, prima. Annihilator,
Metallica, Megadeth, Anthrax, poi.
L’esplosione del black metal, con
annessi i fatti di cronaca dell’Inner Circle, porterà la nostra Hera ad
‘estremizzarsi’ ancor di più, fino ad emulare, seppur per motivazioni di fondo
ben diverse, le gesta di Vikernes e compagnia piromane. Sarà proprio
quell’avvenimento, in realtà, il turning point del viaggio interiore di Hera.
Assieme agli esiti, insperati, di una demo artigianale che la ragazza aveva
inciso e inviato a un’etichetta indipendente norvegese.
Al netto di qualche ingenuità, il
film merita la visione. Pur conoscendo, noi, i 'poteri' del Metallo (qui sul Blog abbiamo più volte sviscerato l'argomento), l'opera ci coinvolge, reggendosi sulla straordinaria interpretazione di
Thora Bjorg Helga, bravissima (e bellissima) attrice islandese, all’epoca
appena 24enne. I suoi occhi sfuggenti e colmi di dolore, il suo costante atteggiamento
di disagio, il suo ribellismo fine a se stesso, trasmettono tutta
l’inadeguatezza nel maneggiare l’ineluttabilità di una tragedia inaccettabile. E non
basterà l’uso del face painting ad evitare quelle ‘stazioni’ obbligate
attraverso le quali la ragazza dovrà transitare.
Infatti, quando Hera cercherà di
‘rientrare’, senza gioia, in una vita normale (fidanzandosi col suo vecchio
amico d’infanzia, bravo ragazzo borghese, svestendo magliette dei gruppi e
giacca di pelle per indossare i vestiti tipici della comunità, aiutando la
parrocchia locale, ecc.) sarà proprio una maglietta di “Master of Puppets” indossata da
un ragazzino in un supermercato (che per tutta risposta al suo sorriso le farà
il gesto delle corna), a squarciare il velo che nasconde la via verso il suo
risanamento spirituale.
A differenza di altre pellicole
che hanno approcciato l’argomento, “Metalhead” quindi non strumentalizza il
Metal per passare il concetto di a-normalità, di ribellione o di mezzo per fuggire dalla realtà
e dalle convenzioni sociali. No, Bragason dimostra di conoscere l’argomento,
conferendogli esplicitamente non solo pari dignità rispetto agli altri generi
musicali ma, proprio per quanto abbiamo scritto ad inizio articolo, una
precipua e profonda valenza ‘superiore’. Insomma, quel significato, difficile da esprimere a parole,
che solo chi ama il Metal conosce appieno.
L’headbanging sfrenato dei tre Karlsdóttir sulle note di “Symphonies of Destruction” dei Megadeth nella stanza di Baldur, chiuderà il percorso di lenta risalita alla vita, all’insegna della consapevolezza e dell’accettazione.
E questo senza che Hera, ormai diventata donna, debba rinnegare il suo profondo Amore
per il Metal.
A cura di Morningrise