Dai passeri al lupo
della steppa. Dai The Sparrows
agli Steppenwolf.
Un bel salto concettuale, visto che, con quel monicker, si tirava in ballo un intellettuale di assoluto livello come lo svizzero Herman Hesse, già Premio Nobel per la Letteratura (è del 1927 il suo "Der Steppenwolf"). La scelta del nome pare sia nata da un’imbeccata del produttore e deus ex machina della band, Gabriel Mekler, venendo recepita da John Kay (voce/chitarra), Goldy McJohn (tastiere) e Jerry Edmonton (batteria) quando, spostandosi dal Canada alla California dopo aver sciolto gli Sparrows, fondarono nel 1967, assieme agli statunitensi Michael Monarch (chitarra) e Rushton Moreve (basso), gli Steppenwolf (intanto Hesse era morto nel 1962).
Ok, lo so, lo so: Steppenwolf = ”Born to be Wild” + “Easy Rider”. Qualsiasi
metallaro conosce la band per questa sorta di addizione matematica scolpita nella pietra. La loro celeberrima canzone, in automatico associata all'iconica pellicola (1969) di Dennis Hopper, è
stata anche consacrata nel 2018 come una tra le 5 canzoni che hanno dato forma
al rock. Con merito, peraltro.
Ma in redazione ci siamo chiesti:
il metallaro medio conosce davvero
gli Steppenwolf? Ha ascoltato un loro album per intero e/o ne conosce la
discografia essenziale? Nel dubbio, abbiamo deciso di usare il nostro format 10 canzoni per conoscere…in modo da
dare una guida rapida ai nostri
lettori che volessero approfondire il lascito della seminale band
nordamericana.
Prima del primo scioglimento,
avvenuto nel 1974 (ve ne saranno altri due), la band pubblicherà ben sei dischi
in studio ma, per essere ancora più essential, abbiamo deciso di
concentrarci sul periodo d’oro della band; cioè sul biennio 1968-1969 durante il quale i Nostri, prolifici quanto mai,
pubblicarono i primi 4 LP in studio, immortalati poi, nel 1970, nello
storico live album “Steppenwolf Live”.
E allora via, partiamo da:
10) “Monster/Suicide/America” (“Monster”_1969)
Partiamo dalla fine, cioè dal non
riuscitissimo “Monster”, album discreto ma nulla più. Dopo la pesante defezione
di Moreve al basso, sostituito già nel precedente full lenght da Nick St. Nicholas, rompe anche il
chitarrista Michael Monarch rimpiazzato dalla meteora Larry Byrom (che lascerà di lì a breve). Il disco, antimilitare, politicamente
impegnato nelle lyrics (il mostro del
titolo è Richard Nixon?), ha il pregio di presentare quest’opener…mostruosa! Una sorta di medley, davvero
ispirato, della durata di quasi 10’ in cui i Nostri si sbizzarriscono spaziando
tra sezioni rilassate, guidate da arpeggi e melliflue tastiere, e sparate
improvvise a base di chitarra e batteria. Un bluesy hard rock trascinante, nervoso, che rimane, a distanza di 53
anni, una delle cose meglio partorite dagli Steppenwolf. Peccato che il resto del
materiale non sia all’altezza, ad eccezione della buonissima chiusura di “From
Here to There Eventually”.
Sorta di canto del cigno
artistico del Lupo della Steppa…
9) “Everybody’s Next One”
(“Steppenwolf”_1968)
Riavvolgiamo il nastro e torniamo
all’omonimo debut: veramente arduo selezionare dei brani da “Steppenwolf”. Non
ci sono filler e la varietà delle
sonorità utilizzate è sorprendente. Sono particolarmente legato a questo brano
di 3’ scarsi che, partendo con piano e hammond, sfocia poi in un ritmo battente
espressamente rock con chitarra in evidenza e batteria ‘pestona’. La song è una
sorta di compendio di tutti gli stili e influenze che potremo trovare nel resto
del disco. E c’è pure lo zampino di Mekler nel songwriting, produttore che sta
agli Steppenwolf come, sempre in quegli anni, un certo Sandy Pearlman stava ai Blue Oyster Cult…
8) “Rock Me” (“At Your Birthday
Party”_1969)
Dopo “Born to Be Wild” è di certo la canzone più celebre del combo. Diverte nei suoi 3’ e mezzo, facendo muovere le chiappe: un rock blues che accelera nel ritmo del chorus. L’intermezzo percussionistico ci catapulta d’emblée in mezzo ad una spiaggia caraibica tra battimani, maracas e tamburi assortiti. Prima che il “rock me baby rock me baby all night long”, ripetuto ad libitum fino al fading, ci riporti a territori a noi più consoni.
Successo clamoroso senza capirne il perché (ma non poteva mancare dalla nostra decina di titoli...)
7) “Don’t
Step On Grass, Sam” (“The Second”_1969)
“The Second”, meno derivativo e
più personale del debut, è, per chi scrive, il vero capolavoro degli Steppenwolf. Il disco nel quale, in modo
maturo ed equilibrato, tutti gli stilemi
della band sono amalgamati in modo mirabile. (Hard) rock, blues,
psichedelia, venature prog, folk e country con, persino, delle spruzzate
beatlesiane copulano allegramente per tutta la durata del disco. E in modo
miracolosamente bilanciato con un John Kay che raggiunge l’apice della sua vena
creativa. Davvero arduo selezionare ma, dopo travagli interiori mica da ridere,
la nostra scelta ricade su questo brano, il più lungo del disco con i suoi
5’43” di durata. È con tutta probabilità il miglior esempio di RB espresso
dalla band, con un testo di virulenta denuncia sociale e che, non
dimentichiamolo, dimostrava la completa assimilazione del combo nel contesto in
cui operava: cioè gli anni della cultura hippie (“You waste my coin, Sam, all
you can / to jail my fellow men / for smokin’ the noble weed”). Andamento
cadenzato, in 4 quarti, che nel bridge inserisce una nerboruta sezione di
tastiere del fenomenale McJohn. Parte centrale acidissima che si fonde, a sorpresa,
con una pop, delicatissima. Con effetto straniante, prima che il tema portante
venga ripreso per il rush finale con tastiere e chitarre a farla da
padrona…capolavoro!
6) “It’s Never Too Late” (“At Your
Birthday Party”)
Un inizio liquido fa da intro ad uno splendido arpeggio elettrificato, con il drumming vario di Edmonton a smuovere il tutto. Chitarra e tastiere si doppiano e si incrociano a guidare una linea melodica da pianti nelle strofe. Ritornello più canonico ma che ti si pianta in testa per non lasciarti più. Una dimostrazione di classe e incisività in soli 4 minuti.
E non
trascurabile il messaggio delle lyrics: “It’s never too late to start all over
again / to love the people you caused the pain / and help them to learn your
name”.
5) “The Pusher”
(“Steppenwolf”)
Come era frequente uso all’epoca,
anche gli Steppenwolf non lesinano cover nei loro dischi. Nel debut ne troviamo
ben tre. Optiamo per “The Pusher”, cover di Hoyt Axton, celebre folk/country
rocker dell’Oklahoma (le altre due sono la trascinante opener “Sookie Sookie” e
la celeberrima blues song “Hootchie Kootchie Man”, altri due highlight del disco). È il brano più lungo del lotto ed è quello maggiormente ipnotico, con un andamento cadenzato, sornione,
guidato dal basso e dalla voce graffiante di Kay. La sua importanza riguarda il
fatto che, meglio di altre, sia per titolo che per sonorità, esprime al meglio
la sfaccettatura psychedelic degli Steppenwolf..
“The Pusher” la vedo come una sorta di boa
constrictor…lasciatevi avvolgere dalle sue spire!
4) “She’ll Be Better” (“At Your Birthday
Party”)
Per chi scrive, il capolavoro
di AYBP. Una piano ballad di grande intensità. Ci mette lo zampino ancora
una volta Mekler mentre Jerry Edmonton, co-autore, si lancia in
un’interpretazione vocale sentitissima. Le strofe esplodono in un chorus
emozionante ma è l’arrangiamento sottostante la marcia in più di una canzone
capace di bucare il cuore dell’ascoltatore.
3) “Faster
Than the Speed of Life” (“The Second”)
Se Mekler, come detto, è un produttore che, di fatto, può essere considerato a tutti gli effetti un membro aggiuntivo del gruppo, lo stesso si può dire per il celebre Mars Bonfire, alias Dennis Edmonton, fratello del batterista Jerry, e anche lui ex-Sparrow negli anni canadesi. Bonfire vergherà nel corso di quegli anni diverse canzoni del repertorio Steppenwolf ed è autore anche di questo brano che assolve alla sua funzione di opener in modo perfetto. Ritmo cadenzato e trascinante, riffone rock supportato dal tellurico drumming del fratellone Jerry e un chorus che non fa prigionieri.
Se volete capire cosa voleva dire proto-metal a fine sessanta,
beh, questa canzone vi chiarirà le idee!
2) “Desperation”
(“Steppenwolf”)
John Kay, signori, dà il bianco in questa struggente rock ballad, dal flavour blues/western. Una canzone che parla di depressione, disincanto, apatia. Ma che sfocia in un’esortazione alla vita e al non mollare mai. Il tutto guidato da un arpeggio tanto semplice quanto irresistibile. Mentre l’accoppiata ritmica Moreve/Edmonton correda in modo esemplare.
Una sfida ai più duri di
cuore…
1)“Magic
Carpet Ride” (The Second”)
È l’altro, immortale, highlight della
carriera degli Steppenwolf. Meritatamente, aggiungeremmo. Inizio psichedelico
con distorsione chitarristica pesante, strofa che deflagra improvvisa,
sculettante. Bridge guidato dall’hammond e poi ripresa della linea portante.
Quando la canzone pare essere di stampo ‘canonico’, ecco che parte una lunga
sezione acid rock. Facile che il nostro Kay fosse piuttosto "stoned" al momento
della scrittura del brano…coverizzatissima negli anni a venire, è l’altra
faccia del manifesto steppenwolfiano.
Ah si, ok…ma la prima faccia qual era?!?
+1) “Born To Be Wild” (Steppenwolf)
Controcultura, antimilitarismo,
biker’s lifestyle, attitudine anarchica e libertaria…e ovviamente proto-heavy
metal! Poche canzoni hanno, in modo così immediato e iconico, rappresentato
così tante tendenze come BTBW. Tutto per quell’”heavy metal thunder” buttato
lì, a spregio, in mezzo a una strofa? Di quel doppiarsi e intrecciarsi tra
chitarra e tastiere? Di quella linea melodica così d’impatto? O per il
ritornello proto-thrash che pare quasi eiaculare in quel born to be wild così lascivo? La sezione strumentale, con basso e
batteria lanciati a mille all’ora, è già proto-metal bello e compiuto…gli Steppenwolf,
grazie al succitato Mars Bonfire, autore del brano, trovarono l’immortalità in 210”
di canzone, non so neppure con quanto consapevolezza posto che la canzone era
stata composta per essere una ballad e venne poi riarrangiata dalla band.
Ma tant’è…il prima è sfumato nel mito; il dopo
è Storia…
A cura di Morningrise