Ammiro molto gli At the Gates, almeno quelli dei primi quattro album, ma ora che non c'è più, avrei da chiedere scusa a Tomas "Tompa" Lindberg per una mia titubanza che ebbi nei loro confronti, poi superata in ragione della stima incondizionata nutrita per la band. A destare le mie preoccupazioni fu la copertina di “Terminal Spirit Disease”, con il logo della band che aveva perso i connotati metal e quel profilo di vetrata gotica in cui si inscriveva il nome...era il 1994, un periodo in cui molte band "tradivano" la causa del metallo e cambiavano casacca all'inseguimento di suoni più morbidi, contaminati e chissà, di un successo commerciale. E dunque, con gran delusione, li detti per debosciati, anche loro. Ma poi nel 1995 esce “Slaughter of the Soul" con una copertina slayeriana che mi fece rinascere la fiducia nella band. Lo stile era cambiato ma semplicemente per spostarsi su un thrash-death maturo e con l'obiettivo, centrato in pieno, di costruire un disco blitzkrieg con uno stile diretto e coraggiosamente esposto in strutture più semplici e timbri più “normali”. La tendenza di reflusso al thrash si sarebbe poi manifestata nei progetti a cui aderirono alcuni membri degli At the Gates, compreso Lindberg.
Complessivamente, gli At the Gates furono a mio avviso il funerale del death metal svedese, che già era di
per sé un funerale infinito. Si potrebbe anzi vederlo come un post-death. In
fin dei conti, gli Entombed stessi erano un death metal che ragionava su se
stesso, consapevole, e che si voleva dare una filosofia, come per chiudere una
questione aperta con se stesso. Quali erano le “Rotting Ways” (per citare un
brano dell'album di esordio) del metal? Dove portava la decomposizione
infinita? Le "vie della decomposizione" condussero gli Entombed al death and roll (che personalmente non mi
faceva impazzire), altri pervennero ai lidi gotici, altri ancora al thrash rinnovato. Gli At the Gates arrivarono Ai cancelli.
Proprio in tema di Entombed, va
ricordato (all’epoca i giornali del settore con questa storia ti gonfiavano le
palle a 2.8) che nel death svedese vi sono stati due importanti nuclei originari, con da una parte i Nihilist, poi divenuti sostanzialmente Entombed, e dall’altra i Grotesque, poi
divenuti At the Gates. Come anche i nomi suggeriscono, erano le due facce di
quel che il death svedese aveva da dire, ovvero da una parte la desolazione e
lo svuotamento, dall’altra la disperazione che consuma.
Ma cosa sono questi cancelli,
che nel metal ti capitano sempre sul percorso, prima o poi?
Il gruppo stesso
lo spiega in “The Red in the Sky Is Ours” (1991): sono cancelli della consapevolezza, oltrepassati i quali le verità sono rilette alla rovescia e probabilmente vengono in questo modo neutralizzate. Le verità palindrome si perdono e noi
rimaniamo l'unico significato portante; tutto vive in noi, ma non vive. Coltiviamo in noi una
morte già avvenuta, prolunghiamo lungo il corso della nostra vita il senso di
cose già morte. Ancora una volta si può dire che “l'unico mistero della vita è
che essa è dominata unicamente da gente morta” (da "Inferno" di Dario Argento). Il brano si conclude con una frase secca: il cancello nero è chiuso! E noi dove siamo? Forse dall'altra parte del
cancello, o forse il cancello nero si chiude portandosi dietro noi, il mondo
oltre se stesso?
I cancelli degli At the Gates erano aperti, sono superati e si chiudono, proiettando l’intero movimento verso una dimensione diversa. Leggendo il testo di “Kingdom Gone” viene quasi da pensarli come i cancelli che convogliarono l’energia e i bisogni ancora giovani del death scandinavo verso il nascente black (era il 1992).
“Dio!...Creatore!... Bugiardo,
sei tu che devi chiedere scusa!
Ti disarciono dal tuo trono di menzogne,
e ti accuse di mille peccati!
Morto nelle fiamme di quello
che tu chiami Inferno,
Io proclamo il tuo Regno dissolto
per sempre
Mille colori invadono lo
spazio, tutti diversi, tutti oscuri
Un sole nero sta sorgendo, la
realtà si rivela
Muoia il tuo Regno…
Spirito Assoluto, ci ribelliamo
contro di Te
Noi siamo gli dei serpenti, tua
prole
Volevamo un posto nel tuo
creato ma ci hai respinto
Io sono il nuovo messia, e battezzerò
te nel peccato
Con una carezza sottraggo la
vita dalla tua carne
Con un colpo muto le tue ossa
in polvere
Muoia il tuo Regno….
Nella luce del sole nero
I mari della siccità iniziano a
bollire
Una nuova dimensione è aperta
Moriamo, e dalla conoscenza di
nuovo nasciamo
Vivremo le nostre vite al
contrario, dalla morte alla nascita
Ora chi giace in attesa si è
destato
Siamo i figli della maledizione
di Dio
Con una tua carezza saluta gli
schiavi della tua creazione
Con un colpo puniscici ora per i
nostri peccati
Muoia il tuo Regno….
Il cancello nero è chiuso.
Nessuno si stupisce ormai a
leggere un testo del genere, ma qui eravamo nei primissimi anni ’90 e si trattava di
death scandinavo, eppure con una carica anti-religiosa paragonabile a quella
dei già attivi Deicide e del black a venire. Neanche era così comune che un gruppo
death avesse una specifica “satanica”. Semmai aleggiava, intorno a questa
tensione spirituale, un pantheon ispirato alla mitologia lovecraftiana, in cui
al posto di Lucifero e degli Angeli ribelli c’erano i Liers in wait: si
trattava di entità innominabili che dormivano sognando fuori dai confini dell’umanità e attendevano un possibile risveglio. I Liers in Wait (coloro che giacciono in
attesa) fu anche il nome di uno dei gruppi “filiati” dagli At the Gates
(consigliatissimi). I cancelli aperti avrebbero prodotto, come dai finestrini di
un aereo che si rompono in quota, una depressurizzazione cosmica per cui gli
uomini sarebbe stati risucchiati e proiettati nel nulla, e gli dei, da fuori,
risvegliati, avrebbero invaso il mondo, mangiandoselo.
Non so cosa fosse allora immaginabile di tutto il nero che sarebbe venuto dopo, non ricordo. Forse solo il sole che sorgeva, appunto…ma in qualche modo si doveva scagliare oltre l’ostacolo tutta quell’energia. E lì rimaniamo in sospeso per un po', perché gli At the Gates cambieranno marcia.
Dopo quell'esordio che li getta
oltre i cancelli della conoscenza, esce un disco che spiazza. “With Fear I Kiss
the Burning Darkness” (1992) non è un sequel, ma una rivisitazione dello stesso
percorso iniziatico, soltanto più inquieto e con una prospettiva meno limpida.
E' uno di quei dischi che a me piace ricordare come di “reazione” del death: in
controtendenza con la voglia di ibridare e di inserire elementi sperimentali
nella classica orchestra death, alcuni gruppi fanno una sterzata brusca in
senso opposto, e si chiudono in se stessi, scegliendo un linguaggio più chiuso
e prevedibile.
Eppure, è un album questo che trasmette inquietudine: una inquietudine che
proseguirà nel blackened death (genere che a partire da quel periodo prolifererà, e poi nei primi
dischi di black svedese, come ad esempio quelli dei Dawn. Quindi gli At
the Gates attraversano una fase di destrutturazione relativa, con un disco
interlocutorio come “Terminal Spirit Disease”, un album che offre un death con
la pelle strappata via, esposto al sole e all'aria. Colori più variegati e vivi
che erompono sulla copertina, mentre il death sembra avviarsi verso una fine
naturale. Siamo vicini alla dissoluzione del death, che avviene in una forma
particolare: riassumendo la forma del thrash con “Slaughter of the Soul”.
E' una scultura ricavata da un unico blocco di marmo, un treno merci che passa in stazione alle 4 di notte. Massiccio, muto, trancia l'aria e ti costringe a fare un passo indietro per timore di andarci sotto. Viaggia da solo, senza conducente, come tutti i dischi concepiti in maniera rapida e dolosa, come un "Reign in Blood" più intimista e tragico, a partire dalla copertina che sembra appunto un misto di quei collage slayeriani e delle copertine di orrore sociopolitico dei primi Napalm Death.
Il disco era di quelli della serie “dopo di me il diluvio”, perché non solo era conciso, tagliente e mirato, ma coincideva anche con il passaggio di consegne dal death al black. Sembrava volesse dire che l'assassinio dell'anima è l'unica soluzione alla sofferenza, un'inconsapevolezza finale, un'unione con gli Dei del caos che impedirà all'anima di far di noi esseri sofferenti. La fine, "The Flames of the End", faceva da contrappunto alla pioggia di sangue che chiude all'infinito "Raining Blood".
Poi ci fu, ma parliamo degli anni 2010, un ritorno per un trittico di dischi che invece parevano riavvolgere il nastro, e tornare ai tempi del primo death pulsante e disperato. Dischi più riflessivi, privi di quel furore che contraddistingueva la prima fase. Un death a cancelli ormai chiusi, che vibra di meno ed è più oggetto di pacata discussione.
Chissà quante forme assumerà il
metal in futuro, e per quanto ancora saremo qui, con Tompa e tutti gli altri “ai
cancelli” di ogni trasformazione.
A cura del Dottore