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6 gen 2018

VIAGGIO NEL METAL AFRICANO - I MURATORI EGIZIANI DALL'ANTICHITA' AD OGGI




L'Egitto è terra di misteri. Come fecero, ad esempio, a trasportare enormi blocchi di pietra alla sommità delle piramidi, impresa impensabile con la tecnologia dell'epoca? Tutti noi diamo per scontato che ci siano riusciti a forza di pedate nel culo agli schiavi, ma sarà davvero questo il segreto?

Secondo me sì, è l'uovo di Colombo, a giudicare dalla determinazione e brutalità con cui gli egiziani di oggi fanno metal.

Probabilmente è la nostra percezione dell'Egitto ad essere alterata da punti di riferimento fuorvianti, come il fascino di Cleopatra, il lussuoso armamentario liturgico, e la delicatezza dei papiri.
D'accordo, ma qual'è il sottile trait d'union che conduce poi nel corso dei secoli, dall'era delle piramidi ad "Anal Street" dei Brutus, uno dei primi brani in cui mi imbatto nell'indagine sul metal egiziano? Perché si sono così involgariti? I raffinati del maghreb, come abbiamo visto, sono piuttosto i marocchini. E per quanto riguarda le radici...chi si aspettava dell'archeo-metal dall'Egitto quindi potrebbe già deglutire amaro.

In un'intervista ad un esponente della scena metal egiziana (Slacker) ho letto però un'affermazione entusiasmante a proposito del valore “identitario” del metal. Dice il tale che il metal è malvisto dalle autorità, cosicché i giovani metallari sono considerati anti-nazionali. E invece, insiste, è proprio nello spirito del metal che molti continuano a sentirsi egiziani, pur essendo in disaccordo con il sistema: il metal è ciò che mi fa considerare l'Egitto ancora il mio paese. Questo mi fa pensare che la stessa cosa è avvenuta in Europa, in questa nuova era del metal, in corso da almeno un decennio. Il metal delle nazioni. Così come una legione straniera in cui ogni popolo può portare le proprie unità, questo veicolo d'espressione è divenuto uno scrigno di tradizioni e insieme un principio di movimento. Giovani generazioni che si appropriano delle tradizioni, magari iniziando con la scusa delle tradizioni estere, ma poi tornando, come per un richiamo della foresta, a quelle proprie.
Sono in questa chiave, piuttosto che in quella di culto dell'Egitto da fumetto, i riferimenti all'antichità culturale e religiosa.

Nell'impossibilità di gestire direttamente il proprio nazionalismo, ci sono egiziani che suonano viking e cantano di leggende nordiche, come i Thorvald. Ci sono gli Hecate che si pavoneggiano col latino, dopo un corso per corrispondenza accelerato dai Morbid Angel, e concepiscono un titolo come “In nomine artem blackium”. Naturalmente, ci sono anche egiziani che utilizzano suggestioni egittologiche per gli argomenti dei testi, come gli Scarab, che incidono per etichette europee.

Dal punto di vista musicale, nel maghreb, e in Egitto ancor di più, ci si addentra nell'oriental metal. L'elemento orientale-arabico in Egitto è decisamente più ingombrante: si va dall'incorporazione all'inserto semplice, oltre al solito genere “calderone” tipo metal-core, in cui si passa impuniti da un quasi-pop a un grugnito death, doppia voce maschile growling e femminile pulita (insomma il pegno da pagare se si vuole frugare nel metal africano alla ricerca di qualcosa di interessante). Certamente ormai è chiaro che nella subcultura metal, più o meno ovunque in Africa, la presenza della donna non è un problema, dai death metal cowboys del Botswana fino alle cantanti metal egiziane. Addirittura ci sono i Redeemers, i locali Strypers (islamic-metal), che coniugano il verbo musulmano con l'elemento femminile protagonista sul palco, con tanto di velo.

Il death metal, melodico e non, gode in Egitto di ottima salute: Paindemonium (nome terrificante, ma sempre meglio di Pan-Thy-Monium), ispirati dal death e dal black svedese, che si cimentano dignitosamente anche con “Blinded by fear” degli At the Gates; Scarab, di cui dovrebbe essere in uscita il terzo album; Origin, che buttano in pista melodia e voci femminli; Veritatem Solam, che spaziano dal thrash alla sperimentazione jazz-death; e ancora Nathyr, che sperimentano un folk-death dagli esiti a tratti sorprendenti. La dialettica che questi gruppi riescono a creare tra stilemi del metal e motivi orientali è ben oltre le into o gli inserti isolati.
Mi ricordano, per questa fusione conflittuale ma interattiva, un episodio a cui assistetti in treno. Un muratore pendolare maghrebino teneva acceso il telefono su una musichetta arabica ossessiva, cantilenante; al che un pendolare laziale, paventando un'ora di viaggio con quel sottofondo, non poté evitare di sbottare, dall'altra estremità del vagone, con voce cavernosa quasi death: ”Lo volemo spegne sto troiaio!?”

Scherzi a parte, la qualità e l'originalità di queste soluzioni è elevata. L'atmosfera generale, rispetto ad altre realtà nordafricane, è che qui non si scherza. C'è qualcosa di inesorabile e di più violento in Egitto, c'è rabbia e ambizione, ma anche una radice culturale che si esprime in maniera sincera.
Il black metal dei Qaf, per quanto da rifinire, propone le sonorità arabeggianti in una versione inquietante e malefica, che va al di là dell'esotismo e del mistero e della registrazione lo-fi.
Gli Odious proseguono sulla stessa riga, e qui addirittura integrano l'elemento arabico nel timbro black, mandolinandolo. E, quando meno te l'aspetti, in Egitto fa capolino Satana. Toh, quasi ce n'eravamo scordati, perché in effetti in Africa non se lo filano granché. Anche il ribellismo giovanile ci tiene a proclamare la sua distanza da ideologie sataniste, e i giovani africani sembrano più vedere nel cristianesimo un'emancipazione e un'elevazione individuale e collettiva che non altro. Se mai Satana diventa una figura interessante proprio qui, nel musulmano maghreb, dove ribellarsi allo Stato, alla Religione e alla Cultura Dominante sono tutt'uno. Addirittura, nel codice penale egiziano la blasfemia non è riferita alla sola religione islamica, ma a tutti i monoteismi (quindi anche ebraismo e cristianesimo), a riprova del fatto che la distanza tra le varie religioni è nulla in confronto a quella con la visione non monoteistica. Bestemmi uno, bestemmi tutti.

Ai nomi già citati si aggiungano Nutr, Hecate e Zatreon. Dai primi, una sorta di black sperimentale per nulla scontato, dai secondi un ferale ma ordinario blackthrash, e dagli ultimi un black thrash con buone trovate (i rintocchi di campana in piena corsa su “666”). Lascia basiti il tema di “Englishman in New York” trasfigurato in "Hope Fails".

L'Egitto in definitiva appare un luogo di tensione creativa elevata, in cui si trova l'islamic metal insieme al più maligno black primordiale, e in cui il bisogno di identità nazionale trova nel metal un canale espressivo, non soltanto per il suo generico valore ribellistico, ma per la possibilità di rileggere la storia, le atmosfere e le radici musicali.

Ci pare quindi ragionevole ipotizzare che le piramidi siano state costruite masso dopo masso da schiavi incitati a forza di blast-beat.

A cura del Dottore