Questo E’ Quello Che Noi
Volevamo.
Parto citando il commento che
un utente ha postato a margine della recensione di “Kingdoms Disdained” in una nota webzine
italica.
Ho letto pareri discordanti sull’ultima
fatica discografica dei Morbid Angel:
c’è chi si è accontentato, chi è rimasto deluso, e persino c’è stato chi ha tirato
ancora in ballo scomodi paragoni con i primi quattro album della band. Ma in
questa illuminante frase ritengo sia detto l’essenziale sull’album.
Il dramma odierno dei Morbid
Angel non sta più nel non saper bissare i fasti delle prime quattro seminali
opere: a nostro parere la cosiddetta “Era Tucker”, una volta compreso il
fatto che essa ha coinciso con la fisiologica fase discendente di una band
storica alle prese con il suo secondo decennio di vita, è stata tutt’altro che
deludente.
Il dramma odierno dei Morbid
Angel, semmai, è stato di dover uscire vivi da un coro di dissensi pressoché
unanime a seguito di un lavoro controverso come “Illud Divinum Insanus”.
Chiariamoci: un singolo album
di merda non può da solo affossare un’intera carriera. Ma l’album più di merda della storia
del metal (sfido io a trovare di peggio: nemmeno “Load” e “Reload”, oggettivamente
parlando, arrivano a tanto) può sferrare una mazzata letale alla carriera di
una band che vive di per sé una fase calante. Tanto che la formazione si
scompose nuovamente, lasciando come unico superstite l’inossidabile Trey Azagthoth, il quale dovette
gettare acqua sul fuoco con un’operazione palesemente atta a guadagnare tempo
come “Juvenilia” (rilasciato nel
2015, il secondo live-album ufficiale
della band non era altro che il recupero di una esibizione dal vivo del 1989 a
supporto del mitico debutto).
Non pretendiamo dai Morbid
Angel capolavori fino alla lettera Z, ma una onesta amministrazione della
propria professione sì, come fanno da più di venti anni gli Slayer, per esempio. I fan invecchiano, molti di essi sono
costretti oggi ad ascoltare il loro genere preferito nei ritagli di tempo e
senza la dovuta serenità, con il walkman
mentre fanno le faccende di casa per non urtare la sensibilità di moglie e
bambini, per esempio. E’ sempre più difficile trovare spazio per il death metal,
che mal si concilia con la quotidianità, e basta un nonnulla per dire “ok, questa
è l’occasione buona per smettere di comprare i Morbid Angel”, pratica portata avanti
per una antica abitudine. E ho paura che molti abbiamo pensato a questo
ascoltando “Illud Divinum Insanus”, esperienza doppiamente bruciante per via
delle aspettative che si erano create con il ritorno all’ovile di David Vincent.
Con tutta l’esperienza che ho
come appassionato del metal e della musica in generale, non sono mai riuscito a
spiegarmi come i Morbid Angel fossero stati in grado di pubblicare un album
così brutto: nemmeno a farlo apposta viene un album così “sbagliato” in tutti i
suoi aspetti, dal concepimento alla realizzazione. Poi ho ascoltato “Kingdoms
Disdained” è un’idea stupida mi è balenata nella testa.
Premetto che sono un paranoico
che vede complotti dappertutto. L’ho forse detto altrove (e non mi stupirei,
visto che oramai sono come quei vecchi che ripetono sempre le stesse cose), ma
ho sempre avuto l’impressione che fra Steve
Harris, Bruce Dickinson e Blaze Bayley vi sia stato una sorta di
patto oscuro per rilanciare la carriera degli Iron Maiden. Album come “No
Prayer for the Dying” e “Fear of the
Dark” mostravano una formazione sempre più fiacca a livello di ispirazione
e scollata con il proprio cantante. Allora ecco l’idea geniale di Harris:
“Tu, Bruce, sparisci dalla mia vista per qualche anno (e penso che ciò
sia cosa gradita per entrambi), ti concentri sulla tua carriera solista facendo
il cazzo che vuoi con chi cazzo vuoi, mentre noi creiamo un po’ di polverone
con un cantante nuovo. Mi duole ammetterlo, ma purtroppo per i fan sei
insostituibile (ricerche di mercato ce lo confermano), pertanto non ci
affanneremo nemmeno a cercare un sostituto decente; anzi, ne sceglieremo uno
pessimo, con un timbro vocale insolito per gli Iron e persino schiappa sul
palco, in modo che, appena dopo due album, lo molleremo e ti riaccoglieremo con
le stelle filanti in modo da godere dell’effetto reunion e poterci in seguito permettere
di andare avanti all’infinito con la solita solfa, tanto questo è quello che
sappiamo fare, i fan se ne facciano una ragione…”.
“Tu Blaze, invece, ti presterai a questo gioco al massacro, ma non avrai
che da guadagnarne in popolarità: ti troverai innanzi a folle oceaniche di fan
che non metteresti insieme sommando tutti i concerti della tua vita; di colpo
il tuo nome, sconosciuto fino ad un momento prima, sarà per magia sulla bocca
di tutti, e chissà se troverai in questo pazzo mondo qualche estimatore. Dopo solo
due album con noi e pomodori in faccia per qualche anno, potrai continuare a
vivere di rendita, nel migliore dei casi come ex cantante degli Iron Maiden,
nel peggiore come onesto artigiano dei bassifondi del metal; in entrambi
suscitando pietà e costruendo una carriera e la pensione su questo sentimento.”
Una cosa analoga deve essere
successa con i Morbid Angel, ma al
contrario, ossia utilizzando Dave Vincent come agnello sacrificale e non il
buon Steve Tucker. Trey Azaghtoth,
infatti, ha sempre mostrato una grande convinzione negli album post-Vincent. Una seconda carriera senza rotture di coglioni
dopo lo split con lo storico front-man, tuttavia, fu messa a dura prova
dalla testardaggine dei fan che non
volevano accettare il nuovo acquisto e da una incrollabile convinzione da tutti
condivisa che con Vincent le cose sarebbero andate meglio. Ecco dunque l’idea
di Azaghtoth:
“David, mi ripugna anche rivolgerti la parola, ma purtroppo ho bisogno
di te. Lo so che non te ne importa più nulla del metal, ma non mi pare che te
la passi meglio alle prese con altri generi, quindi ritengo che anche tu possa
avere un tornaconto in quello che ti sto per proporre. Facciamo un ultimo album
insieme, ma facciamolo di merda per davvero, in modo che la gente si convinca
che la tua presenza non può migliorare i nostri lavori, che Tucker (che ha il
pregio di non rompermi i coglioni) possa essere finalmente accettato, e che i
nostri fan si rassegnino definitivamente ed inizino ad accettare quello che
oggi siamo e che possiamo fare: un death metal potente e ben suonato, come del
resto deve essere il death metal (accidenti a me quando ho tirato fuori Mozart
e Van Halen, sa solo Cthulhu cosa cazzo la gente si aspetta da me…). Facciamolo
questo disastro, così tu potrai trascorrere un altro paio di anni da rock-star,
due soldi in tasca di certo non ti dispiaceranno e poi te ne ritorni a fare
quello che cazzo ti pare, anche il country. Io potrò invece continuare a vivere
sereno e replicare “Heretic” all’infinito.”
Ed eccoci dunque a “Kingsdom Disdained”, un album
rassicurante: i Morbid Angel sono
tornati! E dopo un lavoro come quello precedente, il piacere è doppio!
Per questo non capisco chi si
lamenta o chi è rimasto deluso: questi sono i Morbid Angel oggi e questo è
quello che possono fare. E come spesso capita in queste fasi, non bisogna più
di tanto fossilizzarsi sui difetti, ma saper cogliere i pregi, altrimenti è una
battaglia persa, tempo buttato via.
Svantaggi: il songwriting è prevedibile e privo di
sussulti. Più che altro si è persa quell’atmosfera irrazionale che da sempre
contraddistingueva le mosse dell’Angelo
Morboso (da registrare l’assenza ingiustificata dei sempre graditi
interventi di tastiere e degli immancabili interludi strumentali). Continua a
non esserci più Pete Sandoval (e qui
più di prima ne sentiamo la mancanza, in quanto con un ritorno al sound classico della band il suo
caratteristico stile dietro alle pelli avrebbe portato qualche utile variazione).
Gli assoli di Azagthtoh, infine, sono meno frequenti, meno lunghi e meno
incisivi del solito, sepolti dai suoni pastosi della produzione del sodale Erik Rutan, peraltro criticato da più
parti.
Vantaggi: i
Morbid Angel tornano con il loro album più brutale di sempre (stilisticamente
potremmo definirlo come il ponte mancante fra “Formulas Fatal to the Flash” e “Heretic”, al netto delle pulsioni progressive espresse nell’eccelso
“Gateways to Annihilation”). A
volergli bene, potremmo definirlo un “Covenant”
3.0: diciamo che la sua forza non sta più nell’essenza
visionaria e contorta delle sei corde di Azagthtoth, ma nelle architetture
intricate dei brani, che alternano continuamente sfuriate senza compromessi e
poderosi mid-tempo. Steve
Tucker non si ripresenta con l’aria di chi accetta le elemosina. Egli scrive
tutti i testi e persino la musica di due brani, guadagnando dunque spazi
inauditi a livello di composizione e confermandosi componente attivo della
band: è lui il cantante dei Morbid Angel e il suo growl, sempre più autorevole e potente, imperversa con grande
disinvoltura ed arroganza per gli undici pezzi dell’album. Non solo: si
permette di chiudere l’album ripetendo con tronfia soddisfazione la frase “PRAISE NO MAN AS SAVIOUR” (“non lodare nessuno
come salvatore”, o anche “non vedere nessun uomo come il salvatore”), che
secondo me è una mezza frecciata nei confronti del rivale Dave Vincent, colpito senza pietà nel suo momento di maggiore
debolezza. Scott Fuller non è Pete Sandoval, ma rimane comunque un
batterista con i controcazzi (estremamente preciso e veloce) e non è male
sentire i Morbid Angel mossi da una sensibilità diversa dietro alle pelli
(privi degli stop&go singhiozzanti
e dei sussulti militareschi di Commando,
i brani acquisiscono persino scorrevolezza). A me i suoni saturi di Rutan piacciono.
Se “Kingdoms Disdained” fosse
stato rilasciato da una qualsiasi band death metal, forse non staremmo qui a
parlarne così profusamente. Sebbene lo spirito
dei Morbid Angel sia presente in ogni singola nota, paradossalmente si ha
l’impressione che una band di seguaci li stia scimmiottando, ma questo è
comprensibile se si pensa che per due terzi essi si compongono oggi di membri
non storici (e presumibilmente fan
della band in passato) e che l’unico “pezzo originale”, Trey Azaghtoth, sia il più in affanno di tutti quanto ad
ispirazione, per giunta stretto nella morsa infernale delle energie fresche
portate dai comprimari.
Insomma, un album così lo
potevano fare anche i Deicide, ma
dopo “Illud Divinum Insanus” ci va
bene tutto. Il patto ha funzionato!