Come accadde a livello mondiale per il Death di stampo
americano, anche per la sua versione Swedish, il climax si raggiunse, e si superò,
nel giro di pochissimo tempo. Come abbiamo potuto vedere dalla nostra compilation dei 10 migliori brani, il meglio di sé, il classico death svedese lo
diede tra il 1990 e il 1992. Già dal 1993 la sua spinta innovativa si era
fisiologicamente fermata. E questo a causa degli strettissimi spazi di manovra
nei quali le death metal band potevano “giostrare” le loro composizioni.
Ma, ormai
assolutamente affermato a livello continentale, il death metal svedese, proprio
in concomitanza con la sua parabola discendente, ebbe la forza di esplodere in
una infinità di stili e sottogeneri, consentendo alla Svezia di rimanere ai
vertici del metal mondiale.
E questo grazie a due principi cardine: evoluzione e contaminazione.
Un’evoluzione portata avanti da vecchia e nuova guardia. A partire dagli stessi
Entombed, che si sarebbero rimessi in discussione con le contaminazioni rock
dando alle stampe i notevoli “Wolverine blues” e “To ride, shoot straight and
speak the truth”, per arrivare a tutte le diramazioni melo / goth / prog / technical
/ blackened / doom e chi più ne ha più ne metta. Evoluzioni intriganti che
avrebbero rivitalizzato un genere che rischiava, per sua stessa natura, di
rimanere ingessato nei cliché da esso stesso creati.
MM vi farà da bussola nel fitto e oscuro sottobosco dello Swedish
Death Metal “da grande” (1993-96). I tempi della Bajsligan erano terminati per
sempre. I ragazzi svedesi stavano maturando...e i frutti (maligni) di tale
maturazione non tardarono a raccogliersi…
E quindi tenetevi forte…stiamo andando a scandagliare il meglio del meglio del metal svedese
post-death. Ci addentreremo negli anni ’90 con un’altra compilation. Altre
dieci canzoni imprescindibili, 73’
di pura goduria, capaci di raffigurare le ramificazioni di un genere, lo SDM,
che avrebbe ancora sorpreso il mondo intero, catalizzando l’attenzione di
pubblico e critica!
1. ENTOMBED – “Eyemaster” da “Wolverine blues” (1993)
Abbiamo finito con loro la nostra precedente classifica e
ripartiamo con loro per la nuova. Del resto i Maestri furono quelli che per
primi indicarono una possibile via evolutiva per lo SDM. Che questa fosse il
death n’ roll però non era una cosa così scontata. Amalgamare i due stili
infatti non era semplice ma Andersson e soci vi riuscirono in maniera mirabile.
Tornato all’ovile Lars G. Petrov, i Nostri tirano fuori un pot-pourri di metal
classico, hard rock, groove metal così come cominciava a essere codificato
negli States dai Pantera (ascoltatevi “Contempt” per avere un’idea) e la solita
attitudine hardcore in your face. Il risultato furono 10 schegge (più una cover
dei punkers nord-irlandesi Stiff Little Fingers) cariche di groove, piene zeppe
di soluzioni intelligenti, espresse soprattutto dal rifferrama vario e
articolato della coppia Cederlund – Hellid e dai pattern di batteria fantasiosi
e immediatamente riconoscibili di Nicke. La produzione grassa e calda di Skogsberg
made in Sunlight non tradisce e rende al 100% l’entombed-sound, nonostante la
virata stilistica.
Impossibile scegliere una track rispetto alle altre: l’album
è un tutt’uno da mandare giù in un’unica soluzione. Ma, ahimè, ci tocca
“estrapolare”, e allora ci indirizziamo sull’opener “Eyemaster” che in 200
secondi tondi esprime in modo perfetto il nuovo corso della band di Stoccolma.
Attitudine punk, riffoni death alternati a parti più morbide, continui cambi di
ritmo, stop&go che danno libero sfogo ad assoli tra il metal classico e il
thrash, un Andersson indemoniato dietro al drum-kit e Petrov in grandissima forma.
Signori, ecco a voi un
nuovo stile: il death n’ roll!
2. EUCHARIST – “March
of Insurrection” da “A velvet creation” (1993)
Se gli At the Gates sono i papà di Dark Tanquillity e In
Flames, allora gli Eucharist possiamo considerarli come i loro zii. Gruppo
decisivo per il melo-death, pionieri a tutti gli effetti (assieme ai già trattati Ceremonial Oath, sorta di “band embrione” degli stessi In Flames) di
questa incestuosa unione di death e heavy classico conosciuto da tutti come Goteborg-style, gli Eucharist non ottennero il successo dei nipotini più
blasonati. Questo “A velvet creation”
però, che segue una già ottima demo pubblicata l’anno prima, è un disco senza
cedimenti, dalla grande inventiva. Per molti addetti ai lavori uno dei dischi
migliori del genere. Otto tracce in cui il drumming fantasioso di Daniel Erlandsson (fratellino di Adrian
e futuro In Flames e Arch Enemy) e il riffing cangiante di Markus Johnsson (anche cantante, dal growling molto espressivo)
stregano l’ascoltatore dall’inizio alla fine.
Scegliamo “March of Insurrection”
(ma che bel titolo!) essenzialmente per mere valutazioni soggettive: sarà per
il riff iniziale, grasso e marziale, o quello stacco da pelle d’oca dopo 50”
che fa da preludio a un furioso blast beat. O ancora per l’atipica parte
centrale tra rallentamenti doom, solo-riff melodiosi e stacchi obliqui di
batteria. Fino ad arrivare all’ultimo minuto di devastante accelerazione
death/thrash.
Cult album di una cult band...
3. DISSECTION – “Black horizons” da “The somberlain” (1993)
Per chi scrive, il debut album più impressionante del metal
svedese tutto. Jon Nödtveidt entra in campo a 18 anni e inventa un genere. Blackened death, lo
chiameranno. A noi poco importa delle etichette e ci soffermiamo sulla musica:
maestosa, epica, ricca di inventiva, piena zeppa di soluzioni mai sentite, in
particolare negli schemi delle canzoni. L’opener “Black horizons”, nei suoi 8
minuti di saliscendi emozionali, mette in evidenza tutta la magniloquenza del
dissection sound (supportato dalla produzione agli Unisound di Swanö), fregiandosi di parti rallentate,
assoli classic metal di grande gusto, arpeggi in minore elettrificati,
screaming in falsetto e molto altro. Tantissima carne al fuoco che Jon sapeva
già all’epoca maneggiare e rendere in un tutt’uno coerente e che perfezionerà
ancora in quel disco epocale che risponde al nome di “Storm of the light’s bane”.
I Dissection erano uguali solo a se stessi. Genio
assoluto…
4. KATATONIA – “Gatesway
of Bereavement” da “Dance of december souls” (1993)
Ancora Unisound studios e ancora Swanö dietro
al mixer per l’esordio dei Katatonia di Blackheim.
Album splendido, portatore di un death che del death come lo avevamo conosciuto
fino a quel momento in Svezia aveva ben poco, se non la voce di Renske. Un death/doom
dalle forti tinte dark quello proposto in "Dance Of December Souls", disco che metteva già in
evidenza la profonda vena malinconica che caratterizzerà l’intera carriera dei
Nostri. “Gatesway of Bereavement” è praticamente l’opener dell’album (se escludiamo l’intro) e nei
suoi oltre 8’ tra riff pachidermici, solo-riff struggenti, inserti da pelle
d’oca della tastiera, note di violino, e parti più sinuosamente atmosferiche,
è un ottimo compendio per chi li avesse conosciuti, ahilui, solo dal best
seller “Discouraged Ones” in poi.
Con DODS i Katatonia prendono la rincorsa
verso quello che sarà il loro capolavoro della prima parte di carriera (“Brave
murder day”) pagando pegno a Celtic Frost e compagnia proto-black, ma mettendo
in mostra idee e personalità da vendere.
Del resto quando uno ha la stoffa innata, si vede da subito...
A cura di Morningrise