Proseguiamo e concludiamo la nostra compilation delle migliori 10 songs del death metal "evoluto"...
Mancano ancora sei canzoni e sono sei canzoni basilari per ogni metallaro che si rispetti...
5. TIAMAT – “Whatever that hurts” da “Wildhoney” (1994)
Mancano ancora sei canzoni e sono sei canzoni basilari per ogni metallaro che si rispetti...
5. TIAMAT – “Whatever that hurts” da “Wildhoney” (1994)
Vero è che li abbiamo già inseriti nell’altra compilation, ma
come abbiamo visto “Sumerian cry” era tutta farina del sacco dei Treblinka.
E poi, se parliamo di death evoluto, non possiamo tralasciare
il capolavoro “Wildhoney”, ultimo disco in cui rimangono barlumi death a
marchio Tiamat, per lo più nelle distorsioni delle chitarre e nell’uso delle
vocals. “Whatever that hurts” è un superclassico dove le delicatezze psychedelic
rock e ambient, che diventeranno preponderanti dal 1997 in poi, sono ancora
solo un accenno. Ciò che domina in questo splendido brano è un robusto gothic
dark, venato dalle succitate reminiscenze death. Se già nei Treblinka Edlund
dimostrava di voler travalicare i limiti del genere, e “The astral sleep” e
“Clouds” avevano preparato il terreno, lo strappo definitivo lo abbiamo qui, in
“Wildhoney”. La larva si era trasformata in una splendida farfalla…and for
every tear a dream…(ma Johan, una domanda, scusa: lo psilocybe tea che minchia
è??)
6. OPHTHALAMIA – “Via Dolorosa / My springnight’s sacrifice”” da “Via dolorosa”
(1995)
Chi ci legge, lo sa: abbiamo un debole per gli Ophthalamia e
per Tony Särkkä (l’IT recentemente scomparso). “Via Dolorosa” è un capolavoro senza se e
senza ma, dove il death/black rimane solo nelle vocals di Tony. Per il resto
siamo davanti a un meraviglioso death-doom dalle forti tinte progressive. I
ricami di chitarra della title track formano un mosaico elettrico dal fascino
irresistibile, su cui svolazza la voce da invasato di Tony (che alterna anche
affascinanti sibili) e dove numerosi cambi di ritmo, melanconici assoli e
baldanzosi umori viking rendono ancora più vario e succulento il piatto.
Avremmo potuto scegliere qualsiasi pezzo da “Via Dolorosa”: “After a releasing
death”, “Nightfall of mother earth”, “Ophthalamia / The eternal walk”, “Black
as sin, pale as death”, “Slowing passing the frostlands”…un brano vale l’altro
da quanto belli sono. Ognuno di essi forma a un grande affresco fatto di
oscurità e melanconia.
Ci manchi,
Tony…
7. OPETH – “The
twilight is my robe” da “Orchid” (1995)
Non è stato “amore a primo ascolto” come per gli altri dischi
degli Opeth. Non ho capito subito cosa fosse e quanto valesse “Orchid”. E’
stato per anni un oggetto misterioso. E poi ho finalmente capito: “Orchid” è un
cazzo di album fantastico. Ricco, ricchissimo di spunti, intuizioni, soluzioni
atipiche. Possiamo quindi dirlo: gli “svedesi intelligenti” erano tali sin
dagli inizi!
”Orchid” è un calderone che per certi versi può disorientare, ma
che, una volta compreso in tutta la sua bellezza, darà grandi gioie a chi ha
avuto la pazienza di introiettarlo, ascolto dopo ascolto. In nuce contiene già
tutti gli elementi (seppur in forma meno “controllata” e più grezza) di quello
che verrà espresso l’anno successivo in “Morningrise”. E ognuno dei cinque
brani che lo compongono (escludendo i due intermezzi strumentali) avrebbe
meritato di presenziare nella nostra compilation; alla fine a spuntarla è
“Twilight is my robe”, senza un motivo preciso. In essa troviamo tutte le
caratteristiche principali dell’opeth-sound: c’è l’alternarsi continuo di
potenti distorsioni death a toccanti parti acustiche, del growling profondo ed
espressivo di Akerfeldt alle sue inconfondibili clean vocals, di rutilanti
parti in doppia cassa con melliflue sezioni prog, di richiami al death svedese
dell’epoca a quel retrogusto settantiano da sempre presente nel background di
Akerfeldt. Giustapposizioni che possono apparire forzate ma che alla fine
formano un quadro coerente. Un’uniformità data dal tocco di scrittura di
Mikael, unico e inimitabile. E così anche la lunghezza dei brani, compresi
tutti tra i 10 e i 14 minuti, scorrono via in una dimensione atemporale…
Potere
che solo gli Opeth…
8. DARK TRANQUILLITY – “Punish my heaven” da “The Gallery” (1995)
Sarò sempre legato maggiormente a “Skydancer”, ma è inutile
girarci attorno: “The Gallery” è oggettivamente il capolavoro di Sundin&co.
Avremmo potuto scegliere uno qualsiasi degli 11 brani che compongono
quest’immane opera musicale. Le dolci carezze, alternate a secchi schiaffoni,
della title track o di “Lethe”, la mutevolezza di “Edenspring”, la
thrasheggiante “Midway through infinity”, la contorta “The dividing line”, la
violenza, sempre tecnica e controllata, di “The one brooding warning” o “The
emptiness from wich I fed” (ma che titoli meravigliosi tirava fuori Stanne??!!)
Alla fine andiamo sul classico dei classici, l’opener “Punish
my heaven” che in meno di cinque minuti racchiude tutto: l’iniziale urlo
agghiacciante seguito da un blast beat devastante è il miglior biglietto da visita possibile; e poi: epici mid tempo, assoli
classic metal, aperture in clean, accelerazioni death torcicollo. E
un chorus che canteresti ad libitum: Bring me the light / In the darkness that
never ends / The dawn will never come / Punish my heaven!
Irripetibile. E infatti non più ripetuto...
9. IN FLAMES – “Moonshield”
da “The jester race” (1996)
Se avessi di fronte una persona che non ha mai ascoltato una
nota di musica metal, e mi chiedessero di fargli ascoltare una sola canzone per
fargli capire cosa sia il melodic death metal, allora prenderei lei, a colpo
sicuro: “Moonshield”. E’ l’idealtipo di melo-death song: In
Flames + Fredman studios + Fredrik Nordström = Gothenburg sound. Oltre a un testo immaginifico e affascinante, è
l’intro delle chitarre acustiche a impattare dal primo secondo le orecchie
dell’ascoltatore. E ammaliarlo, legandolo a sé, indissolubilmente. I riffoni che
imperversano dopo 50”, sovrastati dalla linea melodica della lead guitar e dal
growling carico di pathos di Anders Fridén, sono tanto semplici quanto geniali,
mentre la parte centrale, folkeggiante, è solo la quiete prima della tempesta
conclusiva. A distanza di oltre 20 anni, ancora adesso, ascoltando “Moonshield”,
capisco perché mi fossi preso una cotta artistica per Jesper Strömblad, che in quegli anni trasformava
in oro ogni nota che componeva.
E a 40 anni mi ritrovo ancora a cantare davanti
allo specchio I’m the…I’m the…I’m the…I’m the Moonshield!!
10. THERION – “The siren
of the woods” da “Theli” (1996)
In continuazione…tre/quattro volte in fila. E quindi mezz’ore
passate ad ascoltare solo lei: “The siren of the woods”. Una di quelle canzoni
con cui sono cresciuto e che mi porterò dentro a vita. Arrivo “buon secondo” a
parlarne, posto che recentemente mi ha anticipato il nostro Mementomori, con la
sua splendida retrospettiva sugli “anni della rivoluzione” dei Therion. Oggi ci
ritorniamo su per beatificare questa canzone e porla a suggello della nostra
compilation.
Perfetta, nient’altro da aggiungere, col suo incedere in
crescendo, basato su un intro arpeggiato da lacrimoni, fino all’entrata in
scena della voci di soprani, tenori e baritoni. Gli ultimi quattro minuti, in
cui gli umori operistici lasciano spazio ad un più schietto symphonic/gothic
metal, sono l’apoteosi della qualità di scrittura di Christofer Johnsson che non saprà più
ripetersi a tali livelli (sebbene “Vovin” fosse un altro disco top). L’assolo
al minuto 5’ e 20” è quanto di più struggente il filone gothic, che andava per
la maggiore in quel periodo, abbia saputo proporre.
Il suggello perfetto di
come, dalla brutalità di inizio decade, lo SDM era stato capace di trasformarsi
nel breve volgere di quattro anni. Gli svedesi non erano solo sporchi, rudi e cattivi.
I Therion erano lì a dimostrare che da quel calderone di brutalità poteva
nascere anche musica per palati fini e delicati. Infinita
potenza visionaria…
Tracklist compilation
“Eyemaster” 3’21”
“March of insurrection” 5’ 27”
“Black horizons” 8’ 12”
“Gatesway of bereavement” 8’ 15”
“Whatever that hurts” 5’ 47”
“Via Dolorosa / My springnight’s sacrifice” 10’ 56”
“The twilight is my robe” 10’ 59”
“Punish my heaven” 4’ 47”
“Moonshield” 5’ 01”
“The siren of the woods” 9’55”
A cura di Morningrise