Il 1991 è stato un anno stupendo per il metal e i capolavori si sprecano lungo quei fantastici dodici mesi. Sulle pagine del nostro blog vogliamo celebrare il trentennale di un titolo in particolare, tanto splendente in sé quanto importante per gli sviluppi futuri del metal estremo.
Esattamente il 29 giugno del 1991 usciva “Twilight of the Gods”, quello che era stato ideato come il canto del cigno del leggendario monicker Bathory.
E forse, a conti fatti, sarebbe stato anche meglio che tutto trovasse una degna conclusione in quell’opera, perché successivamente la penna di Quorton non avrebbe saputo aggiungere molto di significativo alla saga bathoriana (salverei solo il bellissimo “Blood on Ice”, che peraltro era stato registrato in precedenza, nel 1989, a confermare il periodo d’oro vissuto dall’artista nel corso degli anni ottanta).
Se dopo “Twilight of the Gods” vi sarebbe stato spazio solo per il peggior thrash metal di questo mondo o, al massimo, per minestre riscaldate, prima di “Twilight of the Gods” fu gloria e soltanto gloria: capolavori, nel migliore dei casi, ed album seminali, nel peggiore.
Se mi soffermo sul fatto che “Twilight of the Gods” usciva nel 1991, non posso che pensare a quanto cazzo fosse avanti Quorton, rispetto a tutti. Prima ancora che esplodesse il black metal della folgorante stagione norvegese, il Nostro aveva già fatto il giro di boa, abbandonato quel black metal che aveva contribuito a forgiare e preso il largo verso sonorità più epiche e distese, indicando la via al viking, e non solo. “Twilight of the Gods” sarebbe dovuto essere il compimento di un percorso superlativo, poi basta: il ritiro dalla scena e la gloria eterna (che comunque non è stata intaccata dalla mediocrità dei lavori rilasciati nella seconda metà della carriera).
“Twilight of the Gods” è un capolavoro, ma non è un album perfetto: se ne parla molto, lo si elogia sperticatamente, ma non si dice che la scrittura è altalenante, che è arduo distinguere un brano dall’altro, che la voce a tratti è indecente. Ma queste verità oggettive, che affosserebbero l’operato di qualsiasi musicista, non ledono in nulla la forza di “Twilight of the Gods”. Che è un lavoro stanco, ma di quella stanchezza sublime che hanno certi canti del cigno, con quel gusto saporito che è tipico dei frutti prossimi alla putrefazione.
Sotto la coltre di folk elettrificato (che poi questa rimane la migliore definizione per descrivere l'ulteriore svolta intrapresa con “Twilight of the Gods”), sono evidenti i rigurgiti di un epic metal di marca ottantiana e persino reminiscenze dell’hard-rock dei settanta: uno sguardo al passato che è tipico degli artisti al termine della loro carriera, quando, colti dalla senilità o da una sensazione di vicinanza alla fine, o da semplice mancanza di energie creative, ritornano con nostalgia a quelle influenze originarie che erano state accantonate per fare spazio all’innovazione.
Nemmeno dieci anni erano trascorsi dal debutto discografico, eppure, a giudicare dalle sonorità, sembrano passati piuttosto venti, trenta, quaranta: troppe rivoluzioni erano intercorse nel frattempo, troppa energia creativa era stata versata. E’ come se in quegli otto anni circa si fossero sfruttate a fondo le potenzialità di un entità creatrice che maturava le sue idee in solitudine, di un artista che non aveva avuto compagni di viaggio con cui condividere intuizioni o scambiare impressioni, di un musicista che fondamentalmente non si era fatto le ossa in tour, ma che era progredito sulla sedia di casa sua.
A volte Quorton, artisticamente parlando, mi è sembrato come affetto da qualche disabilità, quelle disabilità che affliggono il corpo, ma non la mente, la quale continua a lavorare con grande lucidità. Quelle disabilità che costringono i giovani sulla sedia a rotelle e che portano ad una morte precoce, dopo un’esistenza intellettualmente brillante. E cosi “Twilight of the Gods” doveva essere la morte precoce dei Bathory, giunti al limite estremo delle loro capacità.
E però vi è una ragion d’essere che conta più di tutto il resto: il togliersi finalmente la maschera, mostrarsi come uomo in uno slancio cantautoriale che portava al definitivo allontanamento dal metal estremo di cui il Nostro era stato un campione indiscusso. Quella cattiveria immane che aveva caratterizzato i primi lavori è adesso lontana, le grida dilanianti di un tempo sembrano intemperanze di bambini, tutt’al più di adolescenti. Già da un paio di album Quorton aveva voltato le spalle a Satana per abbracciare, intelligentemente, il folclore della propria terra natia, la mitologia norrena: scelta che avrebbe impresso una traccia indelebile nel black metal scandinavo (e non solo).
“Twilight of the Gods” è un album sincero, stanco ma sincero, e saggio, di quella saggezza che vien invecchiando (per inciso - nel 1991 Quorton aveva venticinque anni...). E se è vero che la scrittura è altalenante, che è arduo distinguere un brano dall’altro, che la voce, spogliata dallo screaming e costretta, sgraziate e tremolante, in registri puliti, è a momenti davvero indecente, è ancor più vero che in "Twilight of the Gods" tutto è poesia: evocazione di immagini, capacità di creare immagini (e la bellissima copertina è solo un piccolo assaggio dei contenuti) attraverso alchimie elettro-acustiche di folgorante bellezza.
Musica che ti fa sentire gli schizzi delle onde nei denti, la tensione dei muscoli sotto sforzo di uomini che remano con fatica e conducono i loro drakkar verso mete ignote. Suoni che scorrono fluidi, che si acquietano e sciolgono in paesaggi maestosi di una natura incontaminata e che si inaspriscono nel sangue e nel ferro di battaglie memorabili o nelle paure di esplorazioni dall’esito incerto.
E poi guizzi, quei guizzi di genio che sopravvivono, quei momenti superlativi in cui il Maestro torna in cattedra (e quando mai si era allontanato?), come accade nel quarto d’ora magistrale della title-track. E se non è certamente questo il contesto in cui ci si può permettere di essere analitici, in questo 29 giugno 2021 vi chiedo di onorare la memoria di Thomas Borje Forsberg dedicandogli due minuti e mezzo, solo due fottuti minuti e mezzo.
Se la vostra vita è cosi inutilmente piena di inutili cose da non avere un quarto d’ora per ascoltare “Twilight of the Gods” (la traccia), allora correte al minuto 8:45 ed immergetevi nei suoni carezzevoli di una chitarra acustica che si apre un varco, solitaria, nell’elettricità….
...elettricità che va e viene, incalzata da percussioni marziali, che salgono, ma quando sembra che il brano stia per ripartire, ecco che tutto si ferma di nuovo, ed al minuto 9:56 un ruvido giro di basso rimane da solo a creare una manciata di secondi di pura sospensione emotiva...
Cosa accadrà? Al minuto 10:04 attacca uno degli assoli più belli della saga bathoriana, un assolo sferzante, stridulo, impreciso, sgraziato, ma di cuore, forte, straziante, mentre batteria, chitarre ritmiche e cori ripartono più solenni che mai. Al minuto 11:12, quando l’elettricità si stempera nuovamente, potete anche andarvene affanculo.
Ripeto, due cazzo di minuti e mezzo per celebrare la grandezza di un artista, la grandezza di un uomo.
In memory of Thomas Borje Forsberg (1966 - 2004)