"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

27 giu 2015

LA MONTAGNA SACRA: MITOLOGIA E MITOGRAFIA DI QUORTHON



Anche le fiabe cambieranno. Un giorno i bambini chiederanno: “Babbo, mi racconti quella di Quorthon lo svedese che inventò due generi?” A Quorthon però non piacerebbe. Lui stesso disse: “Io ci ho provato a distruggere la leggenda di Quorthon facendo dei dischi solisti veramente stupidi, ma non ci sono riuscito”. Niente paura, lo facciamo noi.

Si stupiva che molti lo considerassero un ispiratore, o fondatore inconsapevole di più di un genere, cioè il black metal e il viking metal. Non era un virtuoso, ma uno che amava fare le cose artigianalmente, l'equivalente di Lucio Fulci nel cinema horror. I dischi venivano come venivano, degli studio-bootleg forgiati così come il destino voleva. Alcune volte, e alcune parti, venivano come gemme grezze di inestimabile valore. Altre volte, come le sorprese delle uova di Pasqua.

Partiamo da un mistero fiabesco: Quorthon conosceva i Venom? A suo dire no, perché all'epoca, in Svezia (Stoccolma esclusa), arrivavano al massimo i dischi dei Motorhead. Il nome Bathory non sarebbe stato ispirato quindi dalla canzone dei Venom, ma dalla statua di cera della contessa che per caso ebbe modo di vedere in un locale gotico a Londra. Ma siamo sicuri di questa cosa? Assolutamente no. Del resto da uno che era reticente a dire quale era il suo nome di battesimo (perché poi?) e piuttosto si inventava continuamente ad ogni intervista dei nomi improbabili, è lecito aspettarsi delle reticenze immotivate anche su altri dettagli.

Comunque il primo disco (quello con il mezzobusto del caprone palestrato su sfondo nero) ricorda in tutti i sensi “Black Metal” dei Venom, anche se cerca di essere più pulito e preciso nell'esecuzione (un compito tra i più facili in natura). La copertina stessa è un'immagine costruita sulla geometria del pentacolo. Il registro compositivo è metal-punk: un giro di chitarra si fa durare tranquillamente per tutta la canzone e cambiando due note ci si fanno anche altre due canzoni; rime ferocemente baciate, scansione vocale “rotacica” che imita Cronos, addirittura titoli uguali ("Raise the dead", "Sacrifice") o quasi ("In Conspiracy with Satan" vs." In League with Satan") e lessico mutuato parola per parola dai Venom. Niente a che vedere con il black complessivamente, se non per qualche passaggio più marziale, peraltro presente anche nei Venom. Meno di 30' di durata, inclusi 3' iniziali vergognosi di campane che suonano nel vento. In compenso non si spreca tempo con le chiuse dei brani, grazie a finali à la “ora basta mi sono rotto le palle”: uno sfuma prematuramente, un altro si chiude in maniera totalmente gratuita con un colpo di gong.

Ora, Quorthon giura che al tempo del disco d'esordio lui conosceva al massimo quattro-cinque canzoni dei Venom, non aveva dischi loro e non pensava in alcun modo di ispirarsi a loro. I casi sono due: o Quorthon prendeva per il culo, oppure aveva ascoltato una cassetta registrata con il titolo della band sbagliata e si ispirò ai Venom credendo fossero i Motorhead. Comunque, per inciso, conoscere cinque canzoni dei Venom significa conoscere tutte le loro sfumature.

Una piccola evoluzione avvenne con “The Return”, più orientato verso il thrash, ma con le solite cafonate à la Venom nel palinsesto, compreso il brano porno sulla solita donna diabolica in calore che ti scopa a non finire ("Bestial Lust"), del filone venomiano di "Lady Lust", "Red Light Fever", "Skool Daze", "Teacher's Pet", "Acid Queen" ecc. Comunque: ancora tre minuti e mezzo di inutili rumorismi iniziali su trentasei di durata. Decisa sterzata vocale, con stile più growling, ma timbro disumano. Nel calderone si sentono ancora echi metal (l'immancabile riff rubato a "2 Minutes to Midnight" dei Maiden, che figura probabilmente in ogni disco metal dell'epoca). Le chiusure dei pezzi “alla vaffanculo” sono ancora la specialità di Quorthon: uno si chiude su un colpo di batteria in piena corsa, nel successivo invece il ritmo si inchioda tipo “disco rotto” e lì è sfumato senza appello.

Il lavoro dove finalmente i Bathory diventano un gruppo interessante è “Under the Sign of the Black Mark”, con il caprone palestrato che campeggia a figura intera in copertina (sulla porta di un antro che dovrebbe essere casa sua). Ecco, qui Quorthon inizia davvero a inventare qualcosa. Si alternano brani veloci con cantato gracchiante (questa volta non venomiano), tastiere minimali per incupire l'atmosfera e tempi marziali ultra-bassi alternati a passaggi più tirati: Burzum prima di Burzum. Con questo disco nascono i Bathory come punto di riferimento: non mi si venga a dire che qualcuno aveva gridato al miracolo coi primi due dischi.

Ciò che semmai emerge a proposito di Quorthon è che egli prova: prova se stesso, senza timore di incorrere in recensioni irridenti (che fioccavano) e senza che all'epoca qualcuno indicasse i Bathory come riferimento di alcunché. Erano solo uno dei gruppi estremi a basso livello tecnico del sottobosco thrash.

"Blood Fire Death" è il disco di transizione. Si racconta che sia il primo album viking metal, genere la cui esistenza stessa è discutibile. Sicuramente si introducono tematiche mitologiche, la lunghezza dei pezzi aumenta, il suono si fa più corposo, il cantato a tratti ritorna umano ed epicheggiante. L'opera si fa ricordare per alcune peculiarità. La prima è che era un disco unico, ma con confezione (stiamo parlando del vinile) apribile in cui, nel paginone centrale Quorthon ci regalava una foto - sfocata, o meglio, sgranata - di tre loschi figuri mezzi nudi, con pantaloni di pelle aperti sull'anca, che brandiscono le spade in mezzo ad un bosco. La seconda cosa da ricordare è che questo disco custodisce uno dei passaggi ritmici cruciali per capire lo sviluppo del black: mi riferisco a “Dies Irae”, in cui da un beat sferzante si passa ad uno propellente. Lo stesso tipo di passaggio si può apprezzare in “Transilvanian Hunger” dei Darkthrone.

I Bathory epici nascono insieme geniali e zoppicanti. Il disco seguente ("Hammerheart") è innovativo per molti aspetti, anzitutto per il concept sulla lotta vichinga contro gli invasori cristiani; ma anche per un'epica opprimente e minimale che guardava al folk piuttosto che al rock. Qui Quorthon si irrita quando gli si chiede se si è ispirato ai Manowar ed in effetti in questo caso - a differenza che per i Venom - non ci sono grandi affinità. I Manowar si calano nella mitologia vichinga più tardi, con “Gods of War”, dopo averla toccata a più riprese. Dicevo zoppicanti perché (non duole ammetterlo dato che la cosa non era per niente nascosta) Quorthon soffriva, e non poco, come cantante epico: non “al limite della stonatura”, ma in pieno marasma vocale, perchè a tratti proprio non ci arrivava. Eppure anche questo alla fine funziona, nel senso che conferma quell'autarchia che lo ha sempre contraddistinto: che tu ci arrivi o no, l'unica voce che hai è la tua. Sembra davvero di vedere navi in balìa delle onde, tempeste che battono gli scogli e il “sangue sul ghiaccio” in questo braccio di ferro tra la voce che soccombe e gli strumenti che sovrastano.

Ora, qui fu a mio avviso il punto in cui nacque il vero mito di Quorthon. Altri artisti hanno insistito nel proporsi alla voce senza sapere cantare, ma questo ha sempre costituito un limite dei loro lavori, oppure un'inutile sindrome del microfono (ovvero: “il pallone è mio e quindi faccio io l'attaccante” - vedi Mustaine, per esempio). Invece per Quorthon fu diverso: in modo del tutto umile, ed al contempo ingenuo, decise semplicemente che avrebbe cantato egli stesso la sua musica, con tutto lo sforzo di cui era capace. Poco importava se il risultato non sarebbe stato formalmente eccellente. Avrebbe creato se stesso e forgiato un approccio anti-tecnico nella musica metal: un metal “personalistico”. Il mito nasce da qui e ben si adatta al culto black della personalità individuale

Quorthon è come uno che scala a mani nude una montagna, arriva pieno di ferite, stremato e bestemmiando per le innumerevoli cadute. Ed alla vetta non ci è neanche arrivato. Ma l'ha fatto da solo, per cui, dove è arrivato, là è la vetta. Ha creato la sua montagna scalando e ce l'ha lasciata in eredità. 

Come vedete, abbiamo provato anche noi a distruggere il mito di Quorthon, ma niente da fare: non ci siamo riusciti neanche noi. Per adesso...


A cura del Dottore