Fra tutte le entità gravitanti nel fascinoso empireo dell’atmospheric black metal, quella che risponde al nome The Ruins of Beverast è senz’altro la più atipica e geniale.
Una discreta padronanza dei mezzi e soprattutto un'inventiva fuori dal comune fanno della one-man band tedesca una realtà di prim’ordine nel vasto panorama del metal estremo. Dietro al progetto un solo nome: Alexander Von Meilenwald, già batterista nei misconosciuti Nagelfar, validissima realtà black metal dell’underground teutonico. Scioltisi i Nagelfar, il Nostro decide di mettersi in proprio e nel 2003 dà vita alla sua nuova creatura, protagonista dell'odierna tappa del nostro viaggio nell’atmospheric black metal.
Bisognerebbe partire dicendo che tutta la discografia dei Ruins of Beverast (ad oggi sei full-lenght) è degna di nota, non presentando passi falsi, ma anzi offrendo opere dall'alta valenza concettuale e contenutistica. Basti pensare al ragguardevole traguardo raggiunto con lo splendido "Exuvia", del 2017, che ha rappresentato uno dei lavori più freschi e penetranti della più recente stagione del metal estremo. Ma a colpire più di ogni altra cosa è la maturità dimostrata dal progetto già a partire dal debutto “Unlock the Shrine” (2004), che poteva contare su basi solide, visto che il suo artefice non era certo alle prime armi. Con il successivo “Rain Upon the Impure” il Nostro avrebbe fatto ancora meglio, dando alle stampe quello che comunemente viene considerato il manifesto definitivo della sua visione artistica, nonché il capolavoro dei Ruins of Beverast e forse dell'intero atmospheric black metal...
“Rain Upon the Impure” dura ottanta minuti e consta di soli sette brani, di cui due sono brevi interludi: non è necessario essere laureati in matematica per capire che si corre vicino alla media del quarto d’ora per brano. In queste cinque tracce-monstre accade di tutto: un susseguirsi di ambientazioni ferocemente contrastanti che porta sistematicamente l’ascoltatore a perdere le coordinate spazio-temporali. Lo straordinario equilibrio compositivo, tuttavia, restituisce un ascolto avvincente, condito di gusto per l’attesa e curiosità per la mossa successiva. Qui, più che mai, il track by track risulta fuori luogo, per questo procederemo assecondando un approccio analitico che ben si presta a cogliere e descrivere i tratti salienti della complessa proposta vergata da Von Meilenwald.
Un primo elemento è sicuramente il tasso tecnico, decisamente superiore a quello della media delle band dedite al genere. Nessun virtuosismo, sia ben chiaro, ma la musica che esce dalle casse dello stereo non è da one-man band. E non è un caso che i Ruins of Beverast portino avanti una regolare attività dal vivo, dove Von Meilenwald, armato di chitarra e microfono, si fa accompagnare sul palco da un ensamble di musicisti in carne ed ossa. Ma su disco il Nostro è tutto solo, e certo la disinvoltura mostrata su tutti i reparti è notevole.
La produzione, benché sporca, restituisce un sound potente, massimalista e che non trascura i dettagli, mettendosi al servizio di un modus operandi pragmatico, teso a “costruire” e non a “sottrarre e confondere” come spesso capita nel black metal atmosferico. Le soluzioni inanellate sono a dir poco inusuali: il Nostro accosta l’inaccostabile, ma lo fa senza frenesia, bensì rispettando l’evoluzione naturale di composizioni pantagrueliche che sanno far convivere brutalità ed atmosfera. Si parla infatti di musica dal grande "impatto visivo", musica animata da una efficace capacità descrittiva, e in questo la produzione esercita un ruolo determinante, rendendo fluido ogni movimento o minima vibrazione.
Un secondo elemento potrebbe essere l'integrazione di universi stilistici diversi, non sempre facilmente conciliabili. Pur in un contesto di black metal ferale ed arcigno, non si disdegna la possanza di certo death metal deviato (chi ha detto Morbid Angel?), tanto che in certi punti si sfiorano i confini del blackened death metal. La componente doom, inoltre, è una presenza cardine, tanto che essa sembra spartirsi con il black metal la scena in parti quasi uguali: l’alternarsi fra passaggi veloci e lenti è senz’altro una caratteristica fondante del sound dei Ruins of Beverast, in perenne bilico fra velocità disumana e spossanti marce doomiche, ai limiti dello sludge.
In questo gioca un ruolo non secondario la batteria, strumento prediletto di Von Meilenwald: le doti di batterista emergono continuamente, sia a livello di potenza, con parti tiratissime ad un passo dall’infarto, che parti cadenzate destabilizzate da secchi contro-tempi. Da notare l’effetto straniante prodotto dalle sinistre linee di chitarra associate a tempi mortiferi, con la battuta sistematicamente in anticipo o fuori posto, oppure dalla doppia-cassa sparatissima sotto lugubri chitarre arpeggiate, escamotage stilistici che ricorrono durante l’ascolto del platter.
Un impiego intelligente degli arpeggi, il più delle volte ipnotici e ricorsivi, è un’altra peculiarità della proposta. Le chitarre arpeggiate, infatti, non sono quasi mai usate in modo convenzionale, manifestandosi quando meno te le aspetti, o a spezzare la ruvidità dei riff o a dare profondità in certe parentesi ambientali. C’è spazio anche per gli interventi della chitarra solista, usata con parsimonia, certo, ma in modo ingegnoso, offrendo essa saggi di schizzato ed irrazionale estro espressionista.
Le tastiere, sebbene mai protagoniste, inspessiscono il suono ed anch’esse si ritrovano spesso a corredare soluzioni insolite, come per esempio le volte in cui, apocalittiche, vengono spalmate, quasi in disarmonia, su chitarre lanciate a velocità inusitata. Complici anche certi accorgimenti presi in studio (come per esempio la manipolazione dei nastri, il rallentamento di taluni passaggi o la deformazione delle voci), gli scenari sonori dipinti si pongono perennemente a metà strada fra l’irreale e il malsano. Obiettivo a cui concorrono anche l’inserto di suoni campionati, come il classico rintocco della campana a morto o cori di opera.
Le voci, infine: bestiali, demoniache, divise fra growl pastosi e orripilanti screaming, un gracchiare furibondo che si inasprisce repentinamente in occasione di sfuriate micidiali. Non si disdegnano nemmeno inserti di voci pulite, cori da “messa nera”, oscuri mantra che rasentano il canto gregoriano, con il compito di rafforzare la suggestiva esplorazione esoterica compiuta dalla band. Da segnalare, in questo marasma infernale, l’azzeccato utilizzo di recitati femminili e campioni di voce pre-registrate: cosa che conferisce al tutto un nota ulteriore di teatralità.
Tutti questi elementi edificano una visione artistica che individua la sua ragion d’essere nella mente creatrice di Von Meilenwald e nello sforzo di astrazione che il Nostro impiega per dare corpo ai torbidi scenari figurati dalla sua fervida immaginazione. I testi, per lo più criptici e pregni di simbolismi, supportano al meglio queste oscure note, edificando scenari di grande suggestione, vuoi che si parli di aspre rappresentazioni di cruente battaglie (“50 Forts Along the Rhine”), vuoi che sia esplorata la dimensione più spirituale (“Soliloquy of the Stigmatized Shepherd”), vuoi che sia la componente esoterica a prendere il sopravvento (“Blood Vaults (I – Thy Virginal Malodour”), “Soil of the Incestuous”, “Balnaa-Kheil the Bleak”), vuoi, infine, che si affondi la lama in penetranti visioni di un'insidiante anti-cristianità (“Rapture”, la title-track).
La parola Beverast, invenzione dello stesso Von Meilenwald, è del resto ottenuta manipolando il termine antico usato per designare Bifrost, ossia il nome del ponte che, secondo la mitologia norrena, univa Midgard e Asgard, rispettivamente il mondo degli umani e il mondo degli dei. Le rovine di questo ponte stanno a simboleggiare l’impossibilità di collegamento fra i due mondi, evidenziando una distanza incolmabile fra Terreno ed Ultraterreno, collegamento che, in verità, questa musica sembra voler ricreare continuamente...
"The day heaven laments your failure
With noise of rain (lashing down) upon the impure"
Scroscia la pioggia...e scrociano anche gli applausi...