Oggi voglio raggiungere il record negativo di cliccate e parlarvi di questa perletta musicale obliata dal tempo: “Wisdom Floats” dei Decoryah, band emersa nel calderone del gothic-metal di inizio anni novanta e dissoltasi appena dopo il rilascio di due album, nonostante il promettente contratto con la Metal Blade.
Ma di metal i Nostri non avevano molto, artefici di una sorta di “psichedelia dei sentimenti” che si evolveva lungo gli schemi liberi di un approccio progressivo, tanto che avremmo potuto inserire questo album nella nostra rassegna sul metal pinkfloydiano. Gli sfortunati finlandesi troveranno invece ospitalità all’interno della serie “Fondi di discografia”, visto che la loro memoria si conserva oggi sotto la coltre di polvere di un cd comprato più di cinque lustri fa…
Di questo “Wisdom Floats” (1994) e del successivo “Fall-Dark Waters” (1996) poco si sentì parlare all’epoca: prelibatezze che potevano finire solamente nella rete degli appassionati di “metal oscuro”, opere superlative destinate all’oblio, vittime di una proposta fin troppo sofisticata per le fauci del metallaro dell’epoca.
Non è che i Nostri, tuttavia, si presentassero benissimo fin dall'immagine: le foto contenute nel libriccino del cd ritraevano quattro ragazzotti non belli, almeno un paio dei quali tendenti all’obeso, palma d’oro alla sagra del brufolo e dell’impurità della pelle, con quelle occhiaie che non hanno nulla di vampiresco, ma molto del segaiolo. Insomma, foto di normalissimi adolescenti che puntavano più alla forma che alla sostanza – e non è affatto un male, intendiamoci, ma certo in questa attitudine anti-markettara, estesa anche alle scelte artistiche, andava rinvenuta la causa prima dell’insuccesso della band.
Dunque, i nostri eroi erano Jucca Vuorinen (voce, chitarra e basso, nonché leader e maggiore compositore del gruppo), Jani Kakko (chitarra e basso), Mikko Laine (batteria) e Jonne Valtonen (tastiere e pianoforte). Ai quattro moschettieri aggiungerei anche la guest Sini Koivuniemi, la cui voce ricoprirà un ruolo tutt’altro che secondario nell’economia del tutto, illuminando più di un passaggio delle lunghe composizioni confezionate dai Nostri. Ma andiamo a vedere di cosa si compongono questi ottimi sessantotto minuti di musica.
Del metal si conservano le atmosfere tese, del doom un riffing che poteva essere assimilato ai coevi Paradise Lost, Tiamat, My Dying Bride, Katatonia. I suoni artigianali si allineavano alle produzioni black metal del periodo e a gioirne sarebbero stati gli amanti di In the Woods… e The Third and the Mortal, tutti coloro che di lì a poco avrebbero apprezzato lo spleen sognante degli Anathema, il grandeur orchestrale degli Arcturus. Ma rispetto a tutti questi nomi, la musica dei Decoryah si spingeva ben oltre, solcando i lidi della dark-wave, di certo neo-folk, dell’ethereal-goth dei Dead Can Dance, della psichedelia pinkfloydiana: il tutto, questo va detto, al solo ed esclusivo servizio delle emozioni!
Ricordo forti emozioni che scaturivano dagli ascolti, spesso notturni, di “Wisdsom Floats”, e queste stesse emozioni sono state confermate recentemente, avvalorate da venticinque anni di cultura musicale in più sulle spalle. I Nostri sparavano dritti al cuore, con suoni grezzi ma evocativi, voci ottenebranti divise fra algida recitazione e volatili gorgheggi gregoriani, chitarre sfarinate ma pronte ad impennarsi in solenni assoli gilmouriani. Poesia allo stato puro. Un suono che, negli esiti, potremmo definire etereo, ma che ad un ascolto attento si rivela ricco di contenuti e colpi di genio: non progressivo in senso stretto, in quanto figlio di un flusso che non ammette strappi o partiture intricate, ma comunque in grado di svilupparsi in modo ragionato attraverso passaggi memorabili che rendono gli episodi riconoscibili l’uno dall’altro.
Come non rimanere incantati, in particolare, dagli interventi vocali della Koivuniemi, che occupa ampi spazi illuminando di colpo con la sua voce cristallina un corpus sonoro fatto da ruvide chitarre e batteria claudicante: sentitela manifestarsi come una bellissima epifania al termine dell’opener “Astral Mirage of Paradise”, o spezzare gli oscuri cori di Vuorinen nella tesa title-track, intervenire con decisione in “Monolithos” o, fra trasognanti tastiere, "prendere il comando della nave" in “Reaching Melancholiah”.
Abbandonarsi all’ascolto significa anche perdere le coordinate spazio-temporali, smarrirsi in luoghi metafisici costruiti di sole emozioni. Solo nel finale ci si concede un momento di efferatezza, con lo scoppio di grida disperate a gettare sconforto negli ultimi secondi nella conclusiva “Infinity Awaits”.
Non mancano sbavature ed imprecisioni, a certificare l’irruenza ma anche l’acerbità di una visione artistica che avrebbe certamente meritato di essere messa meglio a fuoco. Si è visto che non ci sarebbe stato tempo: con il successivo “Fall-Dark Waters” il sound si sarebbe fatto più asciutto, la produzione nettamente migliorata (con qualche inserto elettronico ad evocare Dead Can Dance ed Enigma), le intuizioni melodiche meglio definite ed ancora più lontane dal metal, ma la magia non sarebbe stata più la stessa dell’imperdibile debutto. E in ogni caso, di lì a poco l'avventura si sarebbe conclusa per gli scarsi riscontri commerciali.
Non esagero a dire che questa è musica che non si fa più oggigiorno. Un'autenticità così, un'ingenuità cosi, nel bene o nel male, se la sognano i gruppi di oggi. Viviamo un’epoca in cui proliferano un’infinità di progetti la cui musica potrebbe in qualche modo essere accostata a quella dei Decoryah, ma con una importante differenza: oggi questa musica viene proposta da misantropi che si fanno carico di tutto, scrittura ed esecuzione (si pensi al moltiplicarsi di artisti nell’ambito dell’atmospheric black metal), con il risultato che il tutto viene limitato dalla visione artistica di una sola persona. E che noia, a volte, la drum-machine, che, pur ben programmata, finisce per ingessare ulteriormente il dinamismo di certe composizioni veramente ben concepite. Gruppi come i Decoryah, invece, modellavano le loro visioni in “cantina”: in queste sessioni collettive i musicisti provavano insieme ed ognuno dava il suo contributo. E i pezzi potevano prendere delle direzioni anche non preventivate, frutto della sinergia fra più menti e talenti.
Non vi era, inoltre, ancora un mercato dai gusti predefiniti che dettava regole, o produttori che imponevano specifiche linee-guida. L’universo del gothic-metal era in espansione e in pieno fermento: chiunque poteva dire la propria, rischiando anche di non essere ascoltato, come successo puntualmente ai nostri Decoryah. Ma la loro parola sopravvive ancora in qualche cd ricoperto di polvere, ed adesso in alcune righe di un blog che sulla polvere affonda la sua ragion d’essere...