Se mi avessero detto nel 1994 (anno
in cui conobbi, mio malgrado, gli ZZ Top) che 27 anni dopo avrei scritto un
sentito “coccodrillo” per Joe M. Hill
(per tutti Dusty), lo avrei mandato a quel paese…
Quanto mi stavano sugli zebedei gli ZZ Top: in quel 1994, ricordo, frequentavo il liceo e la mattina, mentre facevo colazione, accendevo la TV sintonizzandomi immancabilmente su VideoMusic. Per parecchi mesi di quel 1994 veniva propinato in continuazione un odioso video della band texana, relativo a un singolo di cui non ricordo neppure il titolo (era appena uscito il disco “Antenna”). Mi chiedevo chi cazzo fossero quei due energumeni barbuti; davo per scontato fossero gemelli. Sbagliandomi.
Ok, va bene che, come abbiamo più volte sottolineato, il metallaro del Terzo Millennio è, musicalmente parlando,
una bestia onnivora, però c’è un tipo di sonorità che davvero difficilmente può
fare breccia nel suo cuore: il southern
rock.
Sarà che quella cazzo di “Sweet
Home Alabama” ce la siamo sentita propinare come una top song imprescindibile
da quando eravamo pivelli; sarà che questi energumeni degli Stati del Sud degli
Usa (tutti birra, patria e simpatie fascistoidi), non ispirano certo una gran
simpatia; sarà che, nel southern, il cordone ombelicale col blues è troppo
marcato...sarà quel che sarà ma, a quanto mi consta, è difficile trovare in una discografia di un metalhead degli album southern.
Derivato dal country, dal
rockabilly e, come detto, soprattutto dal blues (che proprio nel Sud degli Usa,
nel Delta del Mississipi, aveva avuto, 40 e fischia anni prima, i suoi natali e il suo fiorire), il
southern si impone in modo preponderante nella scena rock statunitense tra la
fine degli anni sessanta e gli inizi dei settanta: dalla Florida (The Allman Brothers, Lynyrd Skynyrd, Molly Hatchet,
Outlaws) alla Georgia (The Dixie
Dregs), dall’Arkansas all’Alabama, dal Texas al South Carolina
fu tutto un fiorire di band che, lungi dal porre in primo piano drammi
esistenziali, sperimentazioni sonore e atteggiamenti “decadenti” o psichedelici
(come li avevamo visti nelle scene delle metropoli dell’east e della west
coast sul finire dei sixties) badavano al sodo: donne, alcool
& risse (nei testi come, spesso, anche nei fatti...)
Selvaggi, fieramente
bianchi&sudisti, le band southern misero a ferro e a fuoco gli stage di
mezza America perché sì, quello glielo dobbiamo riconoscere: erano dei veri animali da palco, capaci di
intrattenere con il ritmo, con un sound denso che portava all'automatico dimenamento delle chiappe; ma anche capaci di assoli trascinanti e di una
scrittura più profonda di quello che può sembrare ad un ascolto superficiale. E,
soprattutto, autori di hits immortali tra le quali la succitata “Sweet
Home Alabama” è l’esempio più rappresentativo.
Tra queste hit occupa un posto di
primo piano l’irresistibile “La Grange”,
celeberrima song di quello che, da molti, è considerato il miglior album degli
ZZ Top, “Tres hombres” (1973); album
non a caso inserito nella nostra Lista dei 500 dischi per il 50ennale del Metal
dell’anno scorso.
Ed è proprio a causa della morte
del bassista Dusty Hill, avvenuta la scorsa estate, che sono voluto andare ad approfondire
il rebus ZZ Top e ho scoperto che, cristosanto,
“Tres Hombres” è un disco davvero valido e divertente! L’ho consumato per un
paio di settimane abbondanti e ho capito che anche il southern, se di qualità,
può riservare inedite gioie alle nostre metallare orecchie onnivore.
Al netto di un solo episodio poco
riuscito (la moscia “Shiek”) le restanti nove tracce spaccano davvero, sia
quando rimangono nell’alveo di un puro blues-rock sanguigno (la spettacolare accoppiata
iniziale “Waitin’ for the bus” +”Jesus just left Chicago”, la conclusiva “Have
you heard?”) sia quando i Nostri pigiano sul pedale della distorsione più
marcata, come nella sensazionale “Beer Drinkers and Hell Raisers” (non a caso
coverizzata anche da Lemmy), “Master of Sparks” (probabilmente l’episodio dal
songwriting più interessante), nell’hard-rockeggiante “Move me on down the
line” o nell’hendrixiana “Precious and Grace”.
Ma se pensavamo che gli ZZ top
fossero degli zoticoni dediti a parlare solo di alcool&pupe secondo dei
beceri stereotipi, ecco che arriva puntuale a smentirci la ballad “Hot, Blue
and Righteous”, per chi scrive una delle song più toccanti ascoltate di
recente, con un’interpretazione dell’altro barbuto, il chitarrista Billy Gibbons, davvero
intensa e commovente.
Alla fine ho capito il perché la
redazione di Metal Mirror ha insistito, nonostante le mie titubanze, per inserire “Tres
hombres” e gli ZZ Top nell’elenco dei top 500: perché, probabilmente proprio
assieme ai Lynyrd Skynyrd e agli ottimi Molly Hatchet, il trio texano è la band
che è riuscita al meglio a far propri gli stilemi dei vecchi generi di cui il
southern è debitore ed a stuprarli con scariche
elettriche puramente heavy. Riuscendo così a mettere in luce, ammantate di sordida lascivia, tutte quelle
componenti di tradizione, virile aggressività
e ruspante super-omismo che il blues e il rockabilly, per loro
caratteristiche intrinseche, non potevano esprimere a questi livelli.
E così mi cospargo il capo di
cenere, ammetto il mio errore di gioventù e sulle pagine di M.M. mi sento
di ringraziare la buonanima di Dusty, idealtipico musicista southern, capace di
regalarci insospettabili vibrazioni epidermiche.
C’è della gran sostanza sotto quei cappelli, quegli occhiali scuri e quelle
rozze barbe…fidatevi…
A cura di Morningrise