Tra le diverse conseguenze dell’inesorabile passare del tempo, una che noto particolarmente è quella dell’abbandono, 'fisiologico' direi, di quell’atteggiamento “adorante”, che caratterizza la gioventù, verso band e musicisti. Compresi quelle/i che ancor oggi seguiamo e che ci forniscono grandi emozioni.
E’ passata troppa acqua sotto i ponti da quando, nelle nostre camerette, campeggiavano, con 'somma gioia' dei nostri genitori, decine di foto e poster di gruppi metal; di quel guitar hero, del tal batterista o del talaltro cantante. Per noi adolescenti, 'eroi' da cui cui ogni nota suonata o cantata veniva vissuta quasi (o senza quasi) come espressione artistica di un essere umano superiore.
Col tempo e l'esperienze di vita, quegli atteggiamenti si perdono, capisci quanto i tuoi idoli di gioventù non sono altro che persone 'normali', con pregi e difetti, dotati magari di un talento sopra la media nel fare ciò che fanno, ma privi di quell'aura magica di cui li si circondava da ragazzi. E in tal senso non aiutano interviste e documentari rilasciati o girati massivamente negli ultimi 20 anni. Più le leggi, le interviste, e li vedi, i documentari, e più quei protagonisti del mondo metal, generalmente, ti scadono, deludendoti. Per le banalità che
esprimono o per i comportamenti che assumono; o il modo, a volte saccente e
arrogante, con il quale esprimono le loro 'verità'.
Quindi, eccezion fatta per Anneke Van
Giesbergen, la cui divinità mi pare argomento fuor di discussione, certi termini
come “mito”, “idolo”, “icona”, “leggenda”, ecc. non si confanno più al nostro
modo di pensare, non appartengono più alle “categorie” di pensiero e analisi con cui ci accingiamo a scrivere un post. Del resto, un pizzico di genio e di talento sono insiti in ogni essere umano. Poi vero è che qualcuno riesce a tirarlo fuori, e a concretizzarlo plasticamente in opere e/o azioni, meglio di altri. Ma da qui a venerare costoro, il passo oggi, per chi scrive, è molto lungo.
Ora, va detto che in Redazione non ci siamo mai
strappati le vesti per il buon Udo Dirkschneider che, addirittura, abbiamo
fatto esordire nella prima puntata della nostra Rassegna sul Legno. In quel
post, il nostro Mementomori tratteggiava, con ispirata ironia, pregi e difetti
del singer di Wuppertal e non staremo, quindi, a ripeterci.
Ma siamo consapevoli che per tanti metalheads l’inossidabile singer teutonico è, legittimamente, proprio...un "mito"! Sicuramente un’icona true, un vero metallaro che, potremmo giurarci, non ne tradirà mai, finchè vivrà, lo spirito. Lo dimostra la sua tetragona carriera, tanto longeva quanto 'legnosa', appunto. Ma altrettanto coerente da potersi permettere, quando ormai 35 anni fa decise di avviare il suo progetto solista, di chiamarlo solo e soltanto col suo nome “acronimizzato”: U.D.O. Nome, non cognome si badi bene. Certo, una scelta di comodità (che successo avrebbe potuto mai avere una band che si fosse chiamata Dirckschneider?) ma anche che “gioca” sull’immediata riconoscibilità di quel nome-che-si-fa-monicker: tre lettere che rappresenta(va)no un mondo, uno stile, un look, una voce unica.
Udo, che fino all’anno scorso, con "Game Over", ha
continuato a sfornare dischi in studio come se non ci fosse un domani, oggi
compie 70 anni e si accinge, proprio nel mese corrente, a celebrare questo importante traguardo con un
disco di cover che rendono omaggio alle sue più grandi influenze musicali.
Il titolo, “My Way” è al contempo rimando ad una delle canzoni maggiormente
coverizzate nella Storia della Musica (quella “My Way”, 1969, di F. Sinatra che era a
sua volta una cover di un brano francese del 1968) e riferimento a quell'atteggiamento di "coerenza metal" su descritto.
Tra le cover prescelte, troviamo i Queen, omaggiati con, giusto per rimanere in tema, l’iconica “We Will Rock You”. Udo stravolge l'originale composta da Brian May (il quale pare abbia molto apprezzato) e ci mette sopra ritmi e riffoni heavy che danno al brano un nuovo sapore per un
esperimento davvero ben riuscito.
Ma, più che la versione della
canzone, in Redazione ci ha colpito fortemente il videoclip che la accompagna
(vedi qui). In esso, Mr. Dirkschneider, operatore di servizi di pulizia all'interno di quello che, dal corridoio, parrebbe un teatro, sta lavando i pavimenti con un mocio. Ma una volta inforcate le cuffie e lanciato il lettore mp3, l’ascolto di “We Will Rock You” lo esalta a tal punto da trasportarlo in un mondo parallelo in cui il buon Udo, sempre
più grasso e limitato nei movimenti, diventa uno-e-trino, interpretando tre diverse
parti: un barman, un avventore con maglietta dei Queen e un disk jockey. Fino a portare tutti questi personaggi, assieme al suo vero Sè (occhiali scuri, giubbotto di pelle, anfibi e guanti puntati), sul palco di quel teatro a cantare, illuminati da luci stroboscopiche.
I commenti ironici in Redazione, inizialmente, si sono
sprecati (Perché Udo si veste come Paolo Villaggio in ‘Camerieri?; Cosa ci
vuol dire Udo? Che i Queen ci potranno piacere solo quando avremo 70 anni?) ma,
riflettendo a freddo e più a fondo, dopo questa prima reazione di ilarità, ci
sovvengono altri pensieri che ci piace condividere con i lettori di Metal Mirror.
Innanzitutto, apprezziamo la scelta di sceneggiatura per la quale Udo, cuffie nelle orecchie mentre sciacquetta col mocio, comincia a imitare uno shredding chitarristico sul manico dello scopettone e a usare l'impugnatura dello stesso come un microfono: immagine genuina e realistica di quello che molti di noi fanno durante l’ascolto dell'H.M. in cuffia: sugli autobus, aggrappandoci ai sostegni e usandoli come la tastiera di una chitarra; mentre siamo davanti al pc, usando penne e matite come fossero delle bacchette; cantando in play-back la canzone che stiamo ascoltando, portando alla bocca un evidenziatore come fosse un microfono.
Ma poi ci rimanda soprattutto
un riflesso, ci suggerisce una prospettiva di quello che tanti di noi metalheads potrem(m)o essere alla sua età, magari costretti a fare un secondo lavoro per
integrare una pensione troppo misera (per i fortunati che alla pensione ci
arriveranno). Udo ci dice che, se cervello e corpo ce lo permetteranno ancora, e la passione non ci abbandonerà, a 70 anni saremo ancora lì, ad ascoltare in cuffia il nostro amato Metal, a
chiudere gli occhi facendo “partire” in automatico le dita sul manico
immaginario di una chitarra o ad agitare in alto le braccia per schiaffeggiare
piatti altrettanto immaginari di un drum-kit.
Perché non importa se non hai più
il phisique du role (e peraltro Udo non l’ha mai avuto), non importa se una
pancia alcoolica troppo ingombrante ci rende goffi e pachidermici nei
movimenti: se il tuo è davvero un metal heart, allora il Metal sarà
sempre capace di darti quei brividi elettrici e quelle emozioni che sono ancora
il motivo per il quale esso è il nostro Genere Preferito.
Tanti auguri, allora, caro Udo!
Sta per arrivare la torta artigianale, prodotta direttamente dalla falegnameria di
fiducia…
A cura di Morningrise