Cari Lettori,
oggi, 18 maggio 2022, è un giorno importante: Eduardo
Teixeira da Fonseca Vasconcellos, meglio noto come Edu Falaschi, taglia il traguardo del 'mezzo secolo', compiendo 50
anni!
Come diavolo è possibile che in 7 anni e-fischia di Metal Mirror non abbiamo mai parlato di Falaschi, se non di striscio?
Ci cospargiamo il capo di cenere e rimediamo.
L’occasione ce la da, oltre al
traguardo anagrafico raggiunto dal singer carioca, lo scintillante progetto
messo in piedi da Edu il 04 maggio del 2019: la riproposizione integrale, con
tanto di accompagnamento orchestrale, di uno dei (tanti) capolavori degli
Angra. Quel “Temple of Shadows” (2004) che fu il secondo disco in studio di
Falaschi alla Corte di Kiko Loureiro&co dopo la dipartita dalla band di Andre Matos, avvenuta nel 2000.
Partiamo da una premessa: Falaschi
è un grandissimo. Perchè è un cantante molto
tecnico e uno showman brillante. E anche un coraggioso visto che ha raccolto quel
‘guanto di sfida’, andando a rivestire un ruolo, pesante come un macigno, in una
fase cruciale di quella che allora era tra le più importanti power/prog metal
band in circolazione.
Il clamore della fuoriuscita di
Matos ebbe grande risalto nella stampa e tra i fan e ricordo che anche il
sottoscritto si approcciò alla nuova fatica dei brasiliani, “Rebirth” (2001),
con non poco scetticismo. Come sostituire la voce di Matos? Come compensare la
sua vena compositiva in fase di scrittura?
Ebbene, “Rebirth” fu un (quasi)
capolavoro, un disco senza filler, con linee melodiche ispiratissime e una
manciata di brani (su tutte “Nova Era”, "Rebirth", “Judjement Day” e la
mia preferita “Heroes of the Sand”) che ci restituiva una band in gran forma e
pronta, in questa rinascita, ad
affrontare il futuro con giustificato ottimismo. E questo non solo per merito di
Falaschi: contribuiva l’inserimento in line-up di quel fenomeno assoluto dietro
alle pelli che risponde al nome di Aquiles Priester, per chi scrive il drummer
di power/prog metal più talentuoso in circolazione.
Il successivo “Temple of Shadows”, meno
immediato e sicuramente più articolato di “Rebirth”, confermava al quadrato
l’ispirazione degli Angra. Un disco che si apprezzava pian piano, scoprendo
ascolto dopo ascolto le diverse sfumature, e ricchezze, del sound all’interno
di un concept non banale da mettere in musica (la storia dello Shadow Hunter,
un crociato dell'XI sec. che, tormentato dai dubbi, entra in conflitto con i
dettami della Chiesa Cattolica).
Certo, da lì in avanti gli Angra
infilarono due dischi non certo memorabili come “Aurora Consurgens” (2006) e
“Aqua” (2010) ma, nonostante questo, la successiva dipartita di Falaschi dalla
band nel 2012 (Priester aveva già abdicato nel 2008) fu un fulmine a ciel
sereno.
Edu si giustificò asserendo di voler battere vie personali: dal 2006 aveva fondato un proprio progetto, gli Almah che, da solo project, diventarono, per ben dieci anni, fino al 2016, una band vera e propria.
Sciolta
pure quella, il Nostro si avventura con un monicker che prende il suo stesso
nome. Ed è con i musicisti degli Edu
Falaschi che, come dicevamo all’inizio del nostro post, si dà vita a questo
magniloquente concerto, tenuto assieme alla Bachiana Philharmonic Orchestra.
Due ore di pura goduria sonora
durante le quali, oltre, come detto, ai 66 minuti di "Temple of Shadows", si
da spazio a tante altre cose: intense sezioni strumentali tenute dall'orchestra, toccanti cover di ospiti locali (l’ottima “Planeta Agua” di Guilherme Arantes), e, per aggiungere gloria alla gloria, la
riproposizione di due dei brani migliori di “Rebirth” (la title track e “Nova
Era” che chiude le danze).
A colpire, oltre alla solita allegria e gioia di vivere che, col suo sorriso sincero, trasmette Edu dal palco, sono le capacità del trio Raphael Dafras (basso), Diogo Mafra (chitarra) e Roberto Barros (chitarra), tre musicisti che, vi assicuro, non fanno minimamente rimpiangere, quantomeno a livello esecutivo, il ben più noto trio angriano Loureiro/Bittencourt/Andreoli. In particolare Barros è impressionante per velocità e pulizia di esecuzione (mi ha lasciato a bocca aperta la sua riproposizione alle sei corde della sezione Estate tratta da "Le Quattro Stagioni" di Vivaldi).
Tra ospitate internazionali di
lusso (Kai Hansen in “Temple of
Hate” e la soprano singer degli austriaci Edenbridge, Sabine Edelsbacher, per la clamorosa “No Pain for the Dead”) ad
altre prettamente locali (su tutte quella del maestro di pianoforte Tiago
Mineiro per l’highlight “Sprouts of Time”), il concerto fila via che è una
bellezza. E anche la ventina abbondante di archi, fiati e percussionisti della filarmonica
paiono divertirsi non poco.
Non ci resta che caldeggiare l'acquisto e/o la visione del concerto (qui).
E ribadire i nostri più calorosi auguri per questo straordinario artista.
Allora passatela bene, Edu…altri 50 di
questi anni!
A cura di Morningrise