Io i Seventh Wonder li ascolto tutti i giorni. E per ‘tutti’ intendo proprio tutti, nessuno escluso.
Ho infatti inserito come soneria
del mio smartphone un loro brano, "One Last Goodbye" tratto dal capolavoro “Mercy Falls” (2008).
Quindi, potete ben capire, sono emotivamente coinvolto nel trattare l’ultima fatica di Blomqvist e soci. Gli voglio troppo bene per non avere, verso le loro composizioni, un pre-giudizio favorevole.
Ma proverò in questa sede a far prevalere il lato
analitico, della ‘ragione’, su quello del ‘cuore’.
E il responso, vi anticipo, non sarà lusinghiero per gli svedesi. E di questo mi dolgo non poco...
Dopo il passaggio dalla
finlandese Lion Music, i Nostri arrivano alla seconda uscita con la nostrana
Frontiers. Già dai primissimi ascolti, dobbiamo constatare il ‘passo indietro’ rispetto al
buonissimo “Tiara” (2018) che, a sua volta, era stato un leggero ‘passo
indietro’ rispetto al precedente, mezzo capolavoro, “The Great Escape” (2010). Negli
8 anni di silenzio discografico tra questi due dischi, quindi, dobbiamo ammettere, ahinoi, che l’illuminazione compositiva che aveva caratterizzato quel periodo magico
dell’accoppiata Mercy Falls – The Great Escape, pare abbia abbandonato i
ragazzi di Stoccolma.
Certo, quegli otto anni non erano
passati invano: oltre al cambio di etichetta, c’era stata l’attività live,
immortalata dallo splendido DVD “Welcome to Atlanta” (2014) ma evidentemente
gli impegni di Karevik sul fronte Kamelot e le collaborazioni, riuscitissime,
con A.A. Lucassen, hanno inciso sui Seventh Wonder.
“The Testament”, introdotto da
una copertina davvero suggestiva, lo diciamo subito, è un disco godibilissimo,
pregno di immediate linee melodiche che tendono a far subito presa.
Conficcandosi nelle meningi come lama nel burro. La produzione è ottima,
l’ugola di Karevik è come sempre horse catégorie, la band è affiatata e ognuno
fa il suo dovere con classe e precisione.
Ma, dopo ripetuti ascolti,
continuiamo a rimanere su una valutazione che, al massimo, raggiunge il
‘buono/più che buono’. Non ci sono veri e propri filler, non ci sono canzoni che
ci facciano storcere la bocca disgustati. Al limite qualcosa di anonimo, quello
sì. Ma non vi è neppure una di quelle canzoni ‘clamorose’, da ascoltare
ripetutamente senza mai stancarsi, che avevano fatto dei SW, dopo il perdurante silenzio
(scioglimento?) degli Shadow Gallery, la mia prog metal band preferita.
Sembra quasi che i Nostri, per la
maggior parte dei 53’ che compongono il disco, vadano col freno a mano tirato,
non tanto per aver evitato questa volta il medium del concept album, quanto
per dare la sensazione di aver fatto il ‘compitino’, limitandosi, con mestiere,
a fare quello che sanno fare meglio, ma senza sforzarsi troppo.
Idealtipiche di quanto detto
sopra sono il primo trittico di canzoni del platter, direi le migliori del lotto:
“Warriors”, “The Light” e "I Carry the Blame", piacevoli nell’alternarsi di parti più tirate e altre
più ariose, con trascinanti cori d’ordinanza e i diversi musicisti che dimostrano
tutta la loro perizia tecnica, mai stucchevole.
Ecco, ‘piacevoli’ direi che è
proprio l’aggettivo giusto. Ma nulla più. Siamo lontani anni luce dal sound
magniloquente, potente e dalle commoventi venature epiche che conoscevamo.
Sul resto del disco, poco da
aggiungere: “Invincible” ha il ritornello tra i più catchy di sempre del
repertorio degli svedesi (mi credete se vi dico che una notte non ho preso
sonno per ore perché non abbandonava la mia testa?!?), quasi fossimo di fronte
a una rock band dall’appeal radiofonico, mentre la
strumentale “Reflections” e “Mindkiller” strappano la sufficienza, senza però
entusiasmare. Più in generale, è la
‘ricerca’, lo sforzo qualitativo nel songwriting che pare essere bandito da
“The Testament”, rimanendo sempre piuttosto prevedibile e scolastico (per le
capacità degli svedesi, ovviamente!). Quando poi il minutaggio aumenta come da
copione progressive (“Under a Clear Blue Sky”), si rimane nel solco di
una linearità easy listening evidente, lontana parente di strutture geniali, ma
al contempo mai cervellotiche, di una “Break the Silence” o di una “The
Angelmaker”, tanto per fare due titoli del passato tra i tanti, tantissimi che
potremmo fare. Certo, ascoltare la voce di Karevik, a prescindere da 'cosa' stia cantando, è sempre un gran piacere per le orecchie. Ma a quelle smaliziate come le nostre, questo elemento, evidentemente, non può bastare...
La prog ballad conclusiva,
“Elegy”, guidata dalle tastiere di Andreas Söderin, sembra confermare gli
intenti, non proprio rassicuranti, per il futuro: zuccherosa melodia e
semplicità di ascolto per cercare, chissà, quel successo generalizzato che la
band non ha mai trovato, pur meritandolo.
Disco che mi sento di consigliare,
quindi, solo ai fan ‘duri e puri’ dei SW, come il sottoscritto.
Per chi li dovesse ancora
conoscere, invece, rimandiamo alle perle passate delle loro preziosa discografia.
Voto: 6
Canzone top: “The Light”
Momento top: la prestazione di Karevik in "Elegy"
Canzone flop: “The Red River”
Etichetta: Frontiers rec.
Dati: 9 tracce, 53’; anno 2022