"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

11 ago 2022

VIAGGIO NEL FUNERAL DOOM: BELL WITCH



Diciannovesima puntata – Bell Witch: “Mirror Reaper” (2017) 
 
Come spesso capita, quando un nuovo genere si va creando è come se si navigasse a vista in una nebbia in cui mondi diversi si incontrano e, al netto di originalità, creatività e coraggio, fare il passo più lungo della gamba è frequente, soprattutto quando si naviga in acque estreme. Per il funeral doom questo avveniva verso la metà degli anni novanta, quando il genere cercava la sua via estremizzando gli stilemi del doom e accoppiandoli con la brutalità del death metal. C’è anche da dire che, rispetto alle faticose origini, il funeral doom ha saputo da subito fare enormi passi avanti, fiorendo definitivamente nel nuovo millennio: si è smesso di guardare a queste sonorità come qualcosa di strano e molte band, assunti e metabolizzati gli stilemi di base, hanno saputo spaziare e spiazzare, perfezionando il genere, portando nuove sfumature ad un universo sonoro che sembrava relegato all’estrema lentezza/pesantezza. 
 
All'interno di questo orizzonte sonoro, c'è chi ha scavato ulteriormente nell'abisso, chi ha preferito rifinire il sound ortodosso dei padri e chi invece ha preferito stravolgere quello stesso sound con personalità. Appartengono a quest'ultima categoria gli americani Bell Witch, che in pochi anni si sono meritati un grande rispetto fra gli addetti ai lavori con tre album degni di nota. Io stesso, che un addetto ai lavori in senso stretto non sono, se dovessi indicare il miglior album funeral doom degli anni dieci, mi pronuncerei in favore proprio di questo “Mirror Reaper”: un lavoro che, partendo dagli standard del genere, ha saputo andare ben oltre, divenendo qualcosa di unico nell’intero panorama metal (e non).  
 
I Bell Witch sono un duo di Seattle, nascevano nel 2010 dalle menti visionarie di Dylan Desmond (basso, voce) ed Adrian Guerra (batteria, voce). “Mirror Reaper”, del 2017, è il loro terzo album e segue una tragedia enorme avvenuta in seno alla band, ossia la morte, a soli trentasei anni, di Adrian Guerra (le cause della morte non sono mai state rivelate). E proprio al defunto batterista questo lavoro viene dedicato: un unico brano di ottantaquattro minuti che suona dalla prima all’ultima nota come un dolente requiem, ma che funge anche da struggente riflessione sulla caducità della vita. 
 
Per ragioni di ordine pratico il brano è stato diviso in due corpose sezioni, una per ciascun cd: “Mirror Reaper (As Above)”, 48 minuti, e “Mirror Reaper (So Below)”, 35 e mezzo, con sotto-titoli che intavolano suggestioni esoteriche/alchemiche che non sono certe estranee alla visione artistica della band. 
 
A sostituire Guerra viene impiegato Jesse Shreibman che troveremo seduto dietro al kit di pelli, all’organo ed al microfono (sue sono le parti di growl). La new entry, tuttavia, sembra avere un ruolo di contorno rispetto alla centralità di Desmond, diviso fra quattro corde e voce pulita. 

Anzitutto chiariamo che se non me lo dicevano che c’era solo il basso in questo disco non ci sarei mai arrivato da solo, in quanto lo strumento sa offrire un ampio range sonoro tanto da somigliare ad una chitarra vera e propria: grandi meriti vanno sicuramente alla produzione perfetta di Billy Anderson, che di distorsioni se ne intende visto che già aveva collaborato con Swans e Neurosis
 
Le massicce e granitiche note di basso godono di un caloroso e polveroso suono che odora di deserto ed incenso e si evolvono tramite la fragilità di intrecci melodici che hanno del commovente, ricordando certi passaggi lacrimevoli dei primi Anathema o dei My Dying Bride (dei My Dying Bride ovviamente sradicati dalle umide brughiere inglese e gettati a perire nelle gole del Gran Canyon). Fanno da contraltare lenti e meditativi arpeggi, note perse nel vuoto, corde appena sfiorate la cui lunga eco, il lugubre vibrar nel silenzio, evoca il drone/folk di un altro Dylan, il Carlson degli Earth. C’è molta americana in questo disco, almeno nello spirito, cosa che rende la proposta ancora più particolare e svincolata da certi cliché gotici vigenti nel genere. 
 
Il modo in cui evolve l’album è del tutto imprevedibile, sembra una jam di improvvisazione dettata solo dal sentimento estemporaneo del bassista che opera trasognato, come ispirato da forze invisibili, come se fosse ipnotizzato egli stesso dalle risonanze provocate dal suo strumento. Si alternano pieni e vuoti, potenti distorsioni a momenti di quasi silenzio: a dominare è una lentezza ascetica ove la batteria va e viene, difficilmente imbastisce delle ritmiche lineari, preferendo accompagnare le basse frequenze con il suono carezzevole dei piatti o battiti circostanziati che sanno più di rituale che di metal o di rock. 
 
La prima sezione è la più corposa e potente, ancora infestata dal tremendo growl, dimesso e sconsolato a tratti, in altri inferocito con picchi di disperazione che rasentano lo screaming, e comunque alternato con una voce pulita, lontana e riverberata, liturgica, che sembra quasi il canto di un monaco in isolamento. 
 
La seconda sezione si affida esclusivamente alla voce pulita (sempre quella di Desmond e anche quella dell’ospite Erik Moggridge) ed alla spiritualità dell’organo, con le distorsioni che si affacceranno di nuovo nel finale a chiudere il cerchio, per poi spegnersi di nuovo, lasciandoci al silenzio. 

Da segnalare la comparsata della voce del defunto Guerra attraverso un nastro registrato quando il batterista era ancora vivo e che qui viene impiegato in uno dei momenti più toccanti dell’album, come a voler raggiungere, in modo almeno simbolico, il punto di contattato fra la dimensione dei vivi e quella dei morti. 
 
“Mirror Reaper” è una testimonianza sentita ed al tempo stesso una lucida riflessione, un’opera che scava nel profondo, assumendo contorni spirituali e capace di rasentare la sfera del Sacro: un’operazione, dunque, che sa coniugare ambizione concettuale e sfera emotiva, equilibrio compositivo ed urgenza comunicativa. Indubbiamente un capolavoro dei nostri giorni.