Trentacinquesima puntata: Until Death Overtakes Me – “Collapse of Light” (2022)
Basta, è ufficiale: non ce la facciamo più: finalmente siamo giunti alla fine del nostro viaggio nel funeral doom, iniziato più di un anno fa. Quando scrissi l’introduzione, scosso da spasmi di insicurezza innanzi a cotanta impresa, volli mettere le mani avanti ed azzardare l’idea di una rassegna infinita, un qualcosa di aperto ad ogni possibile sviluppo, ma mi resi presto conto che non avrei mai potuto convivere con l’idea di non aver chiuso definitivamente i conti con il funeral doom.
Eccoci dunque a scrivere la parola fine con le ultime gocce del nostro sangue. E come degna chiusura non potevamo accontentarci di un nome qualsiasi, dovevamo spingerci entro lo stadio terminale del funeral doom, forse dell'esistenza stessa. Gli Until Death Overtakes Me fanno indubbiamente al caso nostro...
Il suono allestito dal belga è tanto semplice quanto efficace: accordi di chitarra lasciati a spegnersi nel vuoto, tetri tappeti di tastiere e un growl rantolante che emerge in modo sporadico nel corso di brani dalla considerevole durata e nei quali, sostanzialmente, non accade nulla.
Niente batteria, tanto per essere chiari: è la chitarra a costituire la scansione ritmica assieme all’utilizzo, discreto, di percussioni a mano. Ma come spesso succede in questi casi, non è tanto la formula a decretare il carattere vincente di un progetto, quanto il modo con cui questa formula viene interpretata, come essa viene declinata e riempita di significato dall’artista. Quello che sulla carta dovrebbe essere dunque un qualcosa di inevitabilmente soporifero, grazie all’equilibrio compositivo di Van Cauter diviene accettabile e persino esaltante a seconda dei momenti.
In casi come questo la sensibilità e i gusti personali dell’ascoltatore decreteranno il livello di gradimento dell’opera, tanto essa presta il fianco alle speculazioni soggettive, perché se è vero che una formula deve essere riempita dal talento dell’artista, di fronte a proposte così astratte ed impenetrabili, l’opera, per essere apprezzata, deve essere impregnata delle significanze che vi riversa chi ne fruisce. La musica di Until Death Overtakes Me potrebbe essere considerata terribilmente noiosa oppure fonte di mistiche visioni: tutto dipende da chi siamo e da come ci disponiamo nei confronti di essa. Certo Van Cauter è da indicare fra i migliori esponenti del settore.
Il Nostro opera sotto l’etichetta Until Death Overtakes Me fin dagli albori del nuovo millennio. In venti anni e passa il buon Stijn NON ne è ha fatta di strada, nel senso che, piuttosto che evolversi, ha preferito girare intorno a quegli stilemi che già erano stati introdotti e consolidati con i suoi primi lavori. Probabilmente l'apice del tutto è già stato raggiunto con i tomi che compongono quella che potremmo definire la Trilogia della Sinfonie: “Symphony II: Absence of Light” (2001), “Symphony I: Deep Dark Red” (2002 - non chiedetemi come mai il primo atto è stato pubblicato dopo il secondo) e “Symphony III: Monolith” (2006), da molti visto come il lavoro di maggior pregio. Da segnalare inoltre la valida digressione costituita da “Prelude to Monolith” e “Interludium I – Funeral Path”, usciti rispettivamente nel 2003 e nel 2004.
Se con il tempo quel suono tanto peculiare in origine si è andato a normalizzare, divenendo meno vibrante e sicuramente più prevedibile, è anche vero che la penna di Van Cauter non si è incancrenita nel puro mestiere, ma anzi ha saputo farsi più intransigente, elevando l'esperimento allo status di stilema. L'auto-referenzialità è un rischio tangibile, ma per percorrere una via immersa nella più totale oscurità ci vuole, oltre che ad un solido senso dell'orientamento, un ferreo rigore ed una grande padronanza dei propri mezzi.
Se il viaggio musicale di Until Death Overtakes Me si compie in un tunnel immerso nel buio, l'ultimo lavoro, il recente "Collapse of Light", come suggerito fin dal titolo, ne costituisce l'apoteosi: nelle quasi due ore di durata, l'album rappresenta il culmine concettuale e l'estremizzazione formale di un intero percorso volto a modellare l’abisso (della Morte?). Solo cinque tracce per disegnare l'oscurità, cinque lunghe tracce di cui la conclusiva, “Dread Afterimage”, arriva ai cinquantotto minuti di orologio: ambizione massima di una visione artistica eccessiva portata al suo eccesso. Una composizione, questa, dai risvolti cosmici e dall'intensità quasi schulziana, persino commovente nel suo sviluppo (decisamente azzeccate le linee melodiche, ragguardevole l'equilibrio raggiunto nel collocare i diversi elementi).
Il cerchio si chiude: "Dread Afterimage" ci riporta laddove il viaggio era iniziato, ma noi non siamo più gli stessi. "Collapse of Light"" è pura sinfonia del buio: un requiem notturno che rappresenta l'esplorazione ultima di un non-luogo ove la luce progressivamente viene meno fino ad annullarsi, totalmente.
Artisticamente parlando, la summa definitiva di una carriera più che ventennale. Per molti: una colossale rottura di coglioni. Per noi: il modo migliore per completare il nostro viaggio nel funeral doom.
FINE?