Qualcosa che credevamo impossibile: la parodia involontaria.
Proprio alla base di questa rassegna sta un concetto che crediamo in ogni caso valido. Eppure, proprio mentre questa rassegna svolgeva, qualcuno ha prodotto l'eccezione che conferma la regola. La regola è che il metal non ride di sé, il movimento si sente quasi in dovere, a tratti, di piegarsi al pegno dell'autoironia, con risultati abbastanza tristi. Ma questo lo fa perché in generale non è per niente propenso a ridere di sé, anzi non ne vede il motivo. Il motivo lo vede chi è esterno, e può considerare alcuni elementi come eccessivi, grotteschi o repellenti. Il fan del metal reagisce quindi con il dovere di praticare l'auto-ironia, dedicando attenzione a qualche produzione parodistica del momento.
Al di fuori di questa concessione a vedere l'aspetto ridicolo dei propri stilemi o clichè, il fan del metal però non è interessato alla questione. Probabilmente infatti le migliori prese in giro del mondo metal derivano da chi lo fa per spirito personale, a partire però da una granitica convinzione di essere “dentro” il movimento sul piano culturale. Una presa in giro destinata però al circuito interno, e molto diversa dal ridicolo che gli altri hanno in testa. Ne ricordo una che ipotizzava afrori di “palle sudate” nel camerino dei Manowar dopo che si erano sfilati i costumi con i cinturoni proteggi-genitali rivestiti di pelle crinita. Ma poteva starci, perché quei costumi erano i costumi dell'immenso “Into Glory Ride”.
Ricordo una puntata della sit-com con Alida Chelli e Gianfranco D'Angelo, di cui vado a rintracciare il nome sulla rete, perché non mi sovviene...”Casa dolce casa”, ecco! D'Angelo si vestiva da metallaro per imitare “i giovani” e si piazzava con le braccia incrociate, le mani con il segno delle corna, declamando tronfiamente “Metalloooo!”. Mai e poi mai è esistito questo modo di dire o di salutarsi tra metallari, né quella posa (d'accordo il gesto delle corna si, anche se non era certamente un segno di saluto in strada). Se rifacessero oggi quella puntata per sfottere gli ultimi Manowar, farebbe quasi sorridere però, perché dopo 30 anni è diventata attuale, in un paradosso temporale che mai avremmo immaginato: il passato che si fa beffe del futuro.
Quel che rende parodistico l'essere umano in maniera autentica è l'inconsapevolezza. Ripetere se stessi per opportunismo, pigrizia o eccessivo compiacimento può essere pesante, stucchevole, indisponente. Ma quando il rapporto tra esaltazione e qualità si inverte, si fa ridere come un nano con i trampoli che pretende di passare inosservato.
I Manowar hanno teoricamente sempre fatto ridere. L'unico disco non eccessivo era forse “Battle Hymns”, un epic con piglio da bulli, che stava per metà sul metal rock dell'epoca, e poi proponeva aperture epico-favolistiche. I Manowar si manterranno sempre fedeli a questa “doppia canna”: da una parte sparano brani di argomento mitologico o fantastico, solitamente bellico, e dall'altra assestano (di solito in apertura) uno o due brani trucidi di bullismo metallico, sempre più esplicitamente autocelebrativo. Si passa dalla celebrazione del metal a quella del “vero” metal a quella dei Manowar stessi, nominati come tali e auto-proclamatisi re sul campo (Kings of Metal), come gli antichi generali romani, di ritorno dal fronte con le loro legioni. Con quella loro attitudine ingombrante e prevaricante, il personaggio dei Manowar si vide crescere intorno come un alone la “questione” del vero metallo, che nessuno aveva in realtà posto come tale, ma che poi, profeticamente, davvero si pose anni dopo. I Manowar impostarono, da soli e in maniera autoreferenziale, la “questione” del vero metal, reclamando il diritto a suonare metal (ma chi mai ci cagava ?) e facendone una bandiera contro un mondo di fasulli e imbelli (whimps, posers) infiltrati anche contiguamente, nel rock pseudo-duro (ma poi chi esattamente ?). Azzeccarono due cose senza neanche poterlo sapere: che il metal “is here to stay”, sarebbe durato, al contrario di altri movimenti effimeri; e che le derive modaiole lo avrebbero attraversato, anche se in maniera diversa da come lo illustravano loro quando ciò non esisteva. Abbiamo valorosamente combattuto per conquistare uno spazio che nessuno ci stava negando, e che poi neanche volevamo così tanto, per non snaturarci, contro un nemico fantomatico che serviva solo per costruire un'identità di gruppo.
I Manowar erano autoreferenziali perché non c'era nessun altro a capo del vero metal, almeno nessuno che lo predicasse, e quindi in questa finzione lirica diventarono leader della propria stessa saga, modelli di se stessi.
L'autocitazionismo iniziò nel brano “Blood of the Kings”, composto da versi che richiamavano i vari titoli della band, con la giustificazione che il brano era un inno a tutte le legioni di fans sparse nel mondo, chiamati a raccolta secondo i nomi delle nazioni. A parte questo, quel brano poteva essere simpatico perché in effetti il lessico epico-bellico dei Manowar era piuttosto ripetitivo, particolarmente insistito (metal, blood, kill, die, sword, hail, black, fight, ogni tanto steel e poche altre parole). Siamo già alla saturazione quando ai nostri viene in mente di sfornare canzoni col titolo quasi uguale, una specie di “sequel” di brani precedenti, come “Hail, Kill and Die”. I testi dei Manowar somigliano al dialogo con lo svizzero, un numero di cabaret di Benigni.
Ad un certo punto, per ripetere le stesse parole senza gonfiare a 2.8 anche le palle dei fans più fedeli, non resta che cambiare lingua, e così “Laut und Hart, Stark und Schnell” (singolo uscito quest'anno) è almeno accolto senza reazioni particolari (forse perfino con simpatia dai fan teutonici), e realizza di nuovo lo stesso spunto di "Blood of the Kings": un collage di titoli e espressioni prese da brani già noti. Se il lessico è sempre lo stesso, perché non semplificare la stesura di un testo, e ripetere semplicemente due righe all'infinito, come in "Immortal" q? (ben inteso, due righe con le parole di sempre). La musica in tutto ciò si riduce a qualche nota sostenuta, un accompagnamento stanco e amorfo. Il poco che accompagna l'ovvio.
Direte allora, i Manowar si sono ridotti come Benigni, dei cabarettisti del metal che parlano come il dialogo con lo Svizzero? Eh no, purtroppo si sono ridotti come lo Svizzero del dialogo, oggetto e non soggetto della comicità. I Nanowar sono destinati a divenirne la forma più seria, ispirata e sincera. Non credo ci possa essere un ritorno, a questo punto della carriera, perché a differenza di altri gruppi storici, qui non è questione del passo falso, dell'esperimento stilistico fallito, del disco interlocutorio, della crisi di ispirazione: qui si tratta dell'inconsapevolezza, o dal tentativo di andare avanti con lo spirito santo, come Saddam Hussein che annunciava “la madre di tutte le battaglie” quando gli erano rimasti si e no dieci carri armati (si, ma quelli finti di cartonato che servivano a sviare i bombardieri della NATO).
Le dichiarazioni di DeMaio che annunciavano il lavoro definitivo si scontrano impietosamente con il commento di un fan che dice credevo fosse un video “troll”...
Anni fa litigavo con chi prendeva in giro la mia passione per i Manowar....ragazzi, se aveste allora scritto brani come questo, mi sarei evitato un sacco di litigi!
A cura del Dottore