Smorza l'entusiasmo la defezione, annunciata circa dieci giorni prima dell'evento, degli Schammasch per via dell'infortunio di un loro membro. La notizia sulle prime mi sciocca, ma poi mi porta ad una scelta saggia: presentarmi a pomeriggio inoltrato e vedere solo i gruppi che veramente mi interessano. Perchè mi conosco: una maratona forsennata volta a vedere più gruppi possibile mi porterebbe esausto (e decisamente ubriaco) all'appuntamento con i nomi di maggior prestigio: meglio dunque risparmiare orecchie, gambe e fegato, e presentarsi direttamente all'altezza dei Vreid verso le cinque e mezzo del pomeriggio. Questo vuol dire aver rinunciato, oltre ai primi gruppi della giornata, anche agli italianissimi ed apprezzabilissimi Ad Nauseam, che hanno persino avuto l'onore di essere trattati nel nostro libro "Come il metal italiano è diventato se stesso – 50 dischi per conoscere il metal italiano". Ma se devo essere onesto, iniziare la giornata con il brutale, intricato, claustrofobico e rompi-capo technical death metal degli Ad Nauseam mi ha spaventato come una peperonata alle sei del mattino. Pochi rimpianti, invece, per la rinuncia agli Isole (epic doom band dalla Svezia - niente di imprescindibile) e ai Chapel of Desease (tedeschi fautori di un death metal sperimentale che già dal nome mi evocano orribili malattie infettive agli organi genitali...).
Capitolo I: gli amici degli amici...
Scelta provvidenziale, dunque, quella di presentarsi all’Electric Ballroom di Camden Town poco prima dell’esibizione dei Vreid, il cui black melodico dalle tinte epiche è il modo migliore per iniziare la maratona. Per chi non lo sapesse, i Vreid sono gli ex componenti dei mitici Windir, resuscitati con un nuovo monicker dopo la morte del leader Valfar (avvenuta nel 2004). Attacca “Into the Mountains”, la quale mostra subito il lato più epico e melodico dei norvegesi con tanto di ritornello in voce pulita, mentre la successiva “Pitch Black” ci consegna l’indole più straight e rockettona del quintetto. Nella cinquantina di minuti a loro diposizione i norvegesi sapranno intrattenere il pubblico offrendo una proposta variegata, un black metal quasi mai spinto e spesso rischiarato da brillanti aperture melodiche. Inutile dirlo, i momenti più intensi saranno rappresentati dalla riproposizione di due brani dei Windir: “Saknet”, eseguita per la prima volta, e “Journey to the End”, a cui si affida il gran finale. In seno ad una prestazione equilibrata, limpida e nel complesso priva di sbavature, si segnala l'ingombrante presenza scenica del bassista Hváll, spesso in prima fila in pose plastiche con il proprio strumento o dietro al microfono ad annunciare i pezzi, rubando così un poco la scena al ben più dimesso Sture Dingsøyr, voce, chitarra ed anima della nuova incarnazione artistica dei Windir.
Si esce soddisfatti e con la sensazione di aver degustato un buon aperitivo prima dei piatti forti, ma c’è ancora tempo per un piccolo assaggio di October Tide che nel frattempo suonano al vicino Underworld. Non ho mai apprezzato particolarmente la nuova creatura di Fredrik Norrman, chitarrista storico dei Katatonia, ma devo dire che in questo frangente la band mi ha pienamente convinto. Il più contenuto Underworld ne esalta il lato più selvaggio, tanto che il death-doom degli svedesi sembra acquisire, nel contesto del piccolo club, vibrazioni quasi hardcore, con i suoni secchi della batteria e quelli rimbombanti delle chitarre. In questo contesto vengono tratteggiati i contorni di brani che sembrano uscire direttamente dal canzoniere dei primi Paradise Lost, con il talento melodico di Norrman ad illuminare la via agli altri componenti. Bravi, mi sono piaciuti, ma è tempo di congedarsi per farsi trovare pronti all’appuntamento con la Storia: salgono sul palco gli Aura Noir!
Capitolo II: back to 1986!
Se devo essere onesto, non sono mai stato particolarmente attratto dagli Aura Noir, band incontestabilmente storica ma che in seno alla rivoluzione del black metal norvegese ha sicuramente costituito un movimento di retro-guardia: venuti leggermente dopo gli altri, laddove in Norvegia si forgiava un nuovo linguaggio della musica estrema, fin da subito gli Aura Noir hanno guardato con fierezza al passato, allestendo un thrash/black d’antan che metteva insieme Venom, Celtic Frost, Sodom ed altre glorie del proto-black ottantiano. Insomma, non proprio quello che io andavo cercando nella seconda metà degli anni novanta, ma dopo tanti anni ho fatto la pace con quel tipo di approccio revivalistico ed oggi fruisco con grande piacere di questo suono così orgogliosamente vintage. Senza poi considerare che sul palco si trova un bel pezzo di black metal norvegese, con Apollyon (anche bassista degli Immortal nell’era Abbath), Aggressor (noto anche come Carl-Micheal Eide e che io ho letteralmente adorato come batterista/cantante nei Ved Buens Ende....) e Blasphemer (chitarrista nei Mayhem nella fase post-Euronymous).
Sull’esibizione in sé non c’è molto da dire: dall’iniziale “Upon the Darkthrone” (con il famigerato ritornello che fa eco – volutamente – alla leggendaria “Transilvania Hunger”) la quasi ora a disposizione dei norvegesi sarà un viaggio nel tempo che ci riporta indietro di quasi quattro decadi, ossia quando il metal tentava nuove vie per farsi più estremo che mai. In altre parole: un martellamento continuo che saprà alternare thrash tiratissimo, voci rauche, ritornelli anthemici e le spacconate del miglior black metal da osteria (ma quanto sarà bello – seppur già risentito milioni di volte - il riffone portante di “Blood Unity”??). Un trionfo di attitudine ben espresso dalle T-shirt indossate dai musicisti (Apollyon porta una maglietta degli Slayer, Blasphemer una dei Bathory) e dalla scelta di coverizzare “Fight Till Death”, brano della primissima ora degli stessi Slayer. I Nostri non si risparmieranno, a partire dall’eroico Carl-Michael Eide, per gran parte del concerto seduto a causa del grave incidente che nel 2005 lo ha costretto ad abbandonare la batteria per riconvertirsi chitarrista. Insomma, scene epiche degne del buon nome della band.
Terminata un po’ bruscamente l’esibizione (un Apollyon in evidente stato di alterazione alcolica stava annunciando l’ultimo brano quando gli è stato gentilmente ricordato che il tempo a disposizione era terminato), c’è tempo per fare una capatina all’Underworld a saggiare le capacità degli svedesi Saturnalia Temple, dediti ad un vigoroso stoner, ma si tratterà di una sveltina motivata più che altro da curiosità, visto che già era stato deciso che il loro "slot" sarebbe stato utilizzato per buttare giù un boccone e presentarsi con un poco di anticipo sotto al palco degli headliner.
Capitolo III: l’unicità ai tempi della riproducibilità
Se c’è una amara verità che si apprende quando si diviene navigati e scafati frequentatori di concerti è che la musica per i musicisti è principalmente un lavoro e che i concerti sono oggi la loro principale fonte di guadagno. A noi appassionati, alla fine, questa cosa importa relativamente, perché paghiamo per intrattenerci un paio d’ore con la musica che ci piace: si spengono le luci in sala e la magia inizia! A volte tuttavia diviene palese che chi sta sul palco stia aspettando di timbrare il cartellino ed andarsene: lo dimostrano non solo le facce, ma anche scalette sempre uguali, show cronometrati al millimetro, nessun fuori programma (bruttissimo, a mio parere, è imbattersi in rete nella registrazione di una data precedente e notare che in quella circostanza sono accadute esattamente le stesse cose a cui abbiamo assistito dal vivo). E questo, ahimè, non vale solo per le super star, ma anche per artisti minori, vessati il più delle volte da una vita on the road ai limiti della sopravvivenza.
Con gli Empyrium, una volta tanto, è lecito fare un ragionamento diverso. Band di culto attiva fin dagli anni novanta, la formazione tedesca ha espresso un cammino artistico anomalo fatto di lunghe pause, drastici cambi di stile, ma sempre garantendo una elevatissima qualità nell’operato ed una solida impermeabilità ad influenze esterne: insomma, si sono palesati solo quando ne hanno sentito il bisogno e nella forma che ha di volta in volta soddisfatto la propria ispirazione. Sul fronte live hanno iniziato a fare concerti in "tarda età" (nel 2011 si è tenuto il loro primo storico concerto - vero avvio di una seconda giovinezza artistica dopo lo scioglimento avvenuto molti anni prima). Raramente li avremmo visti in tour, preferendo essi la partecipazione una tantum ad eventi specifici o festival (molto presenti alle varie edizioni del Prophecy Fest, sempre in Germania).
Quella di Londra al Celestial Darkness non è solo la prima data di sempre in terra albionica, ma anche la prima data fuori dai confini della madre patria da molti anni a questa parte (non mi risulta che la band abbia messo il naso fuori dalla Germania negli ultimi cinque anni circa). Sebbene più recentemente i Nostri abbiano allestito set acustici focalizzandosi principalmente sul loro periodo folk, per l’occasione, come già annunciato da tempo, avrebbero incentrato il loro show sul repertorio delle origini: occasione ghiottissima per gli amanti di quel suono ibrido di inizio carriera che faceva convivere black, gothic metal e suggestioni folk.
Che ci si trovi innanzi ad una esperienza insolita lo si capisce arrivando sotto al palco (in un Electric Ballroom ancora semi vuoto), assistere al sound-check (fatto direttamente dai musicisti) e ritrovarsi di colpo immersi nella bellezza di “Ode to Melancholy”, uno dei loro pezzi più emozionanti: quasi un regalo per i pochi fan accorsi in anticipo. Momento unico che fa da degno prologo ad una esibizione intensissima e sentitissima che dimostrerà, ancora una volta, l’unicità della band.
Al centro del palco presenzia un corpulento Markus Stock, a questo giro orfano del compare – tastierista e polistrumentista – Thomas Helm che probabilmente non fa parte della partita in occasione delle date dedicate al vecchio repertorio. Ma il Nostro mi pare comunque in buona compagnia, perché se l’occhio non mi tradisce dovrebbero essere presenti Fursy Teyssier (ex Les Discrects) al basso, Eviga dei Dornenreich alla chitarra ed Allen B. Konstanz dei Vision Bleak alla batteria: guest di lusso che da anni supportano Stock negli sporadici appuntamenti live. Mi rincuora, inoltre, la presenza di una violinista sul palco, garante della componente folk.
Detto questo, attacca “The Blue Mists of Night”, subito seguita dall’immancabile “Mourners”, e sono già emo-zio-ni. Giustamente il capolavoro “Songs of Moors & Misty Fields” (1997) occuperà gran parte del set, lasciando solo qualche concessione al debutto “A Wintersunset...” del 1996 (fra cui una esaltante riproposizione di “Under Dreamskyes”). Ma se sulla qualità del materiale degli Empyrium non si discute, è semmai più interessante evidenziare la spontaneità e la dedizione al pubblico dei musicisti, in particolare da parte di Stock, a metà strada fra la persona impacciata e un po’ tesa e il musicista perfezionista che vuole dare il massimo. Ancora mi viene il groppo in gola dalla commozione a ripensare a quando, al termine del primo brano, Stock ci ringrazia con il suo inglese “teutonico” e ci fa: “Avete voglia di trascorrere un’oretta con noi, amici miei?”. Insomma, l’uomo semplice ed umile dalle cui mani e dalla cui bocca fuoriescono magie!
Le trame melodiche delle chitarre, spesso enfatizzate dai calzanti interventi di violino, vengono restituite con grande fedeltà, insieme ad una impeccabile base ritmica (ottimo, in particolare, il lavoro delle quattro corde). Epiche cavalcate si alternano a momenti più riflessivi e pause atmosferiche dove fanno la loro comparsa delle tastiere pre-registrate, con Stock che alterna il suo passionale recitato ad uno screaming tanto fiero quanto lacerante. Personalmente parlando riporrò nello scrigno dei ricordi migliori la commovente coda strumentale di “Lover’s Grief”, struggente sequenza di poderosi accordi di chitarra in cui Stock, come in stato di ipnosi, ondeggia la testa e il busto avanti e indietro, con drammi di violino e variazioni di basso ad aggiungere gloria alla gloria. A sorpresa, visto che il tempo sembrava terminato (almeno stando al programma fino a quel momento rispettato al minuto), viene annunciata “My Nocturnal Queen”, prezioso estratto dalla primissima demo “...der wie ein Blitz vom Himmel Fiel...” del 1995, che mostra un sound più aspro, acerbo, ma non meno suggestivo. E dunque via con l'ultimo giro di giostra: una decina di minuti che io considero totalmente regalati e che costituiscono la degna conclusione del tutto.
Lacrime a profusione, dunque, per un evento che possiamo definire raro, se non unico, visto che ogni appuntamento live degli Empyrium fa storia a sé. Nemmeno il tempo di riprendersi dalle emozioni che bisogna avviarsi all’uscita perché a breve il medesimo locale avrebbe ospitato una serata danzante a tema Barbie, ed è quantomeno surreale vedere la scia di funesti ed oscuri energumeni metallari farsi faticosamente strada fra una folla di raggianti ragazzette di rosa vestite in attesa di fare il loro ingresso...
Epilogo
Non si è capito alla fine cosa sia stata questa “oscurità celestiale” che avrebbe dovuto accomunare gruppi dagli stili più disparati (dall’avveniristico technical death metal al vetusto thrash/black old school, con in mezzo un po’ di tutto: death sperimentale, doom/death, doom classico, stoner, melodic black ecc. - senza poi contare i generi esplorati nelle altre giornate, fra prog-metal, prog-rock, gothic metal, darkwave e chi più ne ha più ne metta!). Come utente, ad ogni modo, non mi posso lamentare: l’organizzazione è stata efficiente, le esibizioni puntuali, i suoni buoni e, soprattutto, ho potuto muovermi con agevolezza e vedere i miei amati artisti molto da vicino. Ha aiutato il fatto che non ci fosse molta gente, e – se devo essere onesto – un po’ questo mi ha fatto godere in quanto spero che gli organizzatori abbiano tratto saggi insegnamenti dall’esperienza.
Non so quali fossero gli obiettivi, e come siano andate le altre giornate, ma per quanto riguarda il day 2 a cui ho partecipato potremmo parlare di mezzo flop, in quanto l’Electric Ballroom (con una capienza di 1500 persone) era molto lontano dall’essere pieno (ed anche nel più piccolo Underworld – capienza 500 persone - si stava abbastanza larghi): dimostrazione lampante che non molti sono disposti a spendere così tanti soldi per dei nomi, sì validissimi, ma pur sempre di nicchia. Forse sarà il caso di compattare il meglio tutto in un solo giorno?
Me lo auguro veramente, anche perchè, se ci si pensa, lo scorso anno all'Incineration Fest abbiamo visto nomi del calibro di Marduk, Enslaved, Suffocation, Rotting Christ e Asphyx tutti in un giorno e spendendo qualcosa di meno. Lo ripeto, gli organizzatori del Celestial Darkness (chissà se avrà un seguito) e dell’ormai consolidato Cosmic Void (già annunciata l’edizione di settembre con Arcturus, Samael e Tormentor come headliner, più la consueta sequela di nomi interessanti diluiti con molti altri gruppi minori – il tutto da spalmare, as usual, nei classici tre giorni ed ai soliti prezzi esorbitanti), costoro, stavo dicendo, hanno gusti davvero raffinati e, non so come, sono in grado di attirare realtà decisamente di nicchia in appuntamenti esclusivi scollegati dai tipici tour, cosa che rende la proposta sempre molto allettante ma, ahimè, non sostenibile economicamente.
Chi vivrà vedrà...