Da
quando scrivo per Metal Mirror mi capita di rispolverare album che oramai
ascolto assai raramente. Fra i vari ripescaggi è capitata anche l’intera
discografia degli Slayer (che per me significa i primi sette album: poi
sono stato io che non ho più avuto voglia di album nuovi degli Slayer). Che potrò
mai aggiungere? Gli Slayer sono una band straordinaria e starne a decantare i
meriti risulta quasi stucchevole. Sono La Storia Del Metal ed una bella
immagine (quella del monolito alieno che ricade sul suolo e civilizza tutti gli
scimmioni che popolano il Pianeta Metal) l’abbiamo tratteggiata anche noi
di Metal Mirror (vai a vedere qui se non ci credi).
Ma
al di là delle dichiarazioni ufficiali, che rapporto ho io oggi con gli Slayer?
Vogliamo tutti bene ai nonni, ma quante volte li andiamo effettivamente a
trovare? Purtroppo non spesso, almeno per quanto riguarda album come “Show
No Mercy” e “Hell Awaits”, che peraltro adoro. Ok, di tanto in tanto
torno dalle parti di “Reign in Blood”, ma con lo spirito dei sardi che
ogni anno, d’estate, tornano in Sardegna sennò muoiono. Abbeverarsi di “Reign
in Blood” significa accostare la bocca alla fonte primigenia da dove tutto è
scaturito, dove l’acqua (anzi il sangue!) è di una purezza rigenerante che non
trovi altrove. Però non faccio in tempo a metterlo che è già finito: io nel
tempo che dura “Reign in Blood” apro l’armadio e scelgo cosa mettermi per
uscire, non faccio in tempo a chinarmi per legarmi le scarpe che sono già a “Postmortem”.
“Seasons
in the Abyss” no, oggi è veramente raro che rientri nel mio lettore: è
lungo, tortuoso, tende a tediarmi ed è pieno di canzoni come “Spirit in
Black” o “Expendable Youth” o “Born of Fire”, che non è che
mi spieghino molto (oggi). Per arrivare a “Seasons in the Abyss” (la canzone)
mi devo sempre fare due palle così. Per questo motivo (recentemente) tendo a
preferire “South of Heaven” che è il giusto compromesso: orecchiabile,
quasi canticchiabile. Ed infatti mi ritrovo spesso a cantare sotto la doccia “Mandatory
Suicide” o a passeggiare sculettando con nelle orecchie episodi anche
minori come “Behind the Crooked Cross”, “Read Between the Lies” e
“Cleanse the Soul”.
Giungiamo
dunque a noi: io gli Slayer li ho conosciuti in modo adeguato e consapevole nel
1991 con “Decade of Aggression”, bel doppio live che secondo me,
almeno nel primo tomo, spiattella senza pudore tutto il meglio di Araya
& soci. Poi Lombardo uscì dal gruppo, pertanto, per pura
illusione ottica, tendo a classificare i primi cinque album come seminali-fantastici-classici-del-metal-tutto,
e il resto come merda fumante. Ma non è vero, è solo un’illusione ottica.
Partiamo
da “Divine Intervention”, anno 1994. Lombardo non c’è più. Che è come
dire che c’è da sostituire Maradona. Chiunque avrebbe fallito, anzi, nessuno
ci avrebbe provato, ma Bostaph tenta lo stesso. Gli altri gli danno un
bell’aiuto e l’incipit di “Killing Fields” è la migliore presentazione che
un batterista degli Slayer possa avere. Cazzo che presentazione: siamo dalle
parti di “Hell Awaits” (la canzone, l’inizio), sessioni di brutalità in cui Jeff
& Kerry macinano riff come se non ci fosse un domani e Bostaph
suona come Lombardo al cubo. Se Lombardo pestava, Bostaph pesta di più e forse
negli Slayer l’unico modo per essere rispettati è pestare di più. Ma
attenzione: l’album (che oggi è considerato una mezza ciofeca) fu salutato all’epoca
con il massimo dei voti e qualcuno parlò addirittura di Nuovo “Reign
in Blood”. Eresie a parte, l’analogia penso sia nata per via del basso
minutaggio (trentasei minuti, nemmeno così poco a guardar bene) e per il fatto
che in esso si picchia di più, almeno rispetto a “South of Heaven” e “Seasons
in the Abyss”, che in effetti procedevano più lenti e cupi. Ricorda sempre: se
non sai cosa fare, dove andare, picchia di più.
Insomma,
Diego Armando non c’è più, ma Ortega, almeno alla prima partita, segna
venti goal. Quindi Bostaph non c’entra niente, non ha colpe, è solo una
questione di tempistiche. Il 1994 è un anno difficile: muoiono Ayrton
Senna, Massimo Troisi, Domenico Modugno, Elias Canetti, Karl Popper, Burt
Lancaster, Gian Maria Volontè, Sylva Koscina, ma soprattutto muore Kurt
Cobain. La sua morte, però, non riparerà i danni immani che il medesimo
aveva procurato al metal.
Era
dunque un periodo difficile, un po’ per tutti, ed anche se gli Slayer lo facevano
notare meno di altri, il disorientamento c’era e culminò nel 1996 con un
improbabile album di cover hardcore/punk (“Undisputed Attitude”)
che avrà avuto sicuramente un utile valore terapeutico per i musicisti stessi,
ma a noialtri la buttava un po’ di fuori.
Magia
del giornalismo, quando nel 1998 uscì “Diabolus in Musica” (bellissima
copertina!) tutti si inchinarono nuovamente: questa volta innanzi a niente meno
che al Nuovo “Seasons in the Abyss”. Perché, archiviato l’insulso
“Divine Intervention” (secondo me, invece, un album simpatico ed una mazzata
niente male), con il Diabolo si tornava alle antiche cupezze e velate
voglie di sperimentare (per quanto possano sperimentare gli Slayer nel 1998).
Però nessuno aveva scritto (porca puttana!) che gli Slayer s’erano messi a
suonare nu-metal! Anche questa volta fu una mazzata, ma per le coronarie: tanto
mi incazzai all’epoca che giurai al cielo (???) che non avrei più acquistato un
album degli Slayer.
Ma
ero solo un ignorante: non avevo ancora capito che il thrash nasceva dall’hardcore
. Ed infatti più che nu-metal i Nostri recuperavano quella violenza deragliante
che li aveva ispirati in gioventù e che era stata analizzata in modo esplicito
con l’album di cover.
(Apro
una parentesi: in quegli anni si stava affermando il fenomeno del post-hardcore
e non è una strana coincidenza: la gente s’era rotta il cazzo di buzzoni con fufata
e magliette truculente ripiegati sulle proprie chitarre, intenti a riprodurre
il riff perfetto, sul ritmo perfetto, con il growl perfetto…Oh,
ma è fottuto metal o matematica??? La gente voleva gente che strillava (ed
Araya strillava, eccome se strillava), più groove, più controtempi e
meno staffilate (Bostaph, nell’incertezza, buttava dentro tutto, controtempi e
staffilate). In questo gli Slayer, fra tutti gli incartapecoriti della vecchia
scuola del thrash, furono lungimiranti: capirono che l’unico modo per
progredire era tornare indietro, regredire alla fase hardocor-anale.
Parentesi
nella parentesi, breve accenno alle condizioni artistiche degli altri tre
dei mitici big four nell’anno di (dis)grazia 1998: i Metallica
si trovavano in pessime acque, freschi freschi di “Reload” (1997). I Megadeth
non erano messi meglio ed erano artisticamente situati fra “Crypting Writings”
(1997) e “Risk (1999). Gli Anthrax erano completamente allo sbando: con
John Bush alla voce rilasciavano “Volume 8: The Threath is Real” (1998), album che
non penso l’abbiano ascoltato nemmeno gli stessi Anthrax e i loro parenti.
Dunque ricapitolando: i primi avevano partorito due fra i più brutti e nefasti album
della storia del metal (e di sicuro non erano sulla via della guarigione, visto
che successivamente avrebbero dato alla luce quello più brutto in assoluto, ossia
“St Anger”); i secondi erano semplicemente ridicoli, i terzi erano praticamente
diventati la cover band degli Alice in Chains. Considerato tutto questo,
direi che gli Slayer erano quelli messi meglio.
Chiusa
parentesi.)
Ma
non so come, “Diabolus in Musica” ritornò un giorno all’ovile della mia
collezione. Perché in effetti non lo possedevo più, ad un certo punto sparì, di
sicuro scambiato o dato via per cinquemila lire a qualche fiera del disco usato.
Oggi invece c’è, quindi o l’ho riscambiato o l’ho ricomprato a cinque euro in
qualche fiera del disco usato. Non so perché il figliol prodigo sia stato
accolto nuovamente: sarà stato forse il richiamo irresistibile di quella
copertina che è troppo bella per non far parte della collezione di chiunque. E
poi diciamo la verità, anzi urliamola: invecchio male. Laddove i classici del
metal mi puzzano ormai d’ammuffito, se voglio scapocchiare un poco, piuttosto
mi vado ad ascoltare i Black Flag o i Discharge o i Dead
Kennedys. Ma siccome non ho una vasta scelta di cd hardcore nella mia
collezione, allora, quando mi voglio veramente sfalloppiare il cervello,
il cd che metto, quello per cui alzo veramente il volume, è “Diabolus in
Musica”. Va bene così, è così che deve andare: lo sento più contemporaneo, è di
una simpatia strepitosa, niente togliendo agli album dal primo al quinto, che
sono immortali, eterni e quindi fuori dal tempo.
“Diabolus”
è quello di cui ho bisogno, con Bostaph che spacca tutto con la batteria, con
Araya che spacca tutto con la voce. Non ricordo un singolo pezzo, perché lo
apprezzo come flusso. E poco m’importa se ogni tanto c’è qualche giro di
basso distorto (sentire il basso in una canzone degli Slayer è per me come
vedere la punta del cazzo di mio padre che fa capolino dai boxer d’estate), o
qualche controtempo di troppo che fa molto “NU”. Tanto io di nu-metal non ho praticamente
niente, salvo il minimo indispensabile per poterlo disprezzare a ragion veduta:
un cd dei Korn, due dei System of a Down, due dei Deftones
ed uno degli Slipknot. Ma solo per rappresentanza, perché non li ascolto
mai, fatta eccezione per i Deftones, ma solo per quanto riguarda la canzone “Be
Quiet and Drive (Far Away)” in cui quel buzzicone di Chino Moreno canta
come una cagna in calore, mi pare copi Simon Le Bon, ma mi fa impazzire uguale.
Insomma, questo per dire che se mi va di ascoltare il nu-metal piuttosto metto
“Diabolus in Musica”. E se poi capita a
tratti di sentire Araya che rappa (ma Araya che rappa è come
l’orologiaio che, per cambiare la pila al vostro orologio, utilizza il martello
pneumatico al posto del cacciavite), considerate che ho meno cd rap/hip-hop di
quanti ne abbia in ambito hardcore/punk e nu-metal.
Conclusioni:
“Diabolus in Musica” è la porta che conduce ad un mondo che si conclude con “Diabolus
in Musica”. Ha tutto quello che voglio le rare volte in cui voglio ciò che
generalmente non voglio. Ed espletando questa funzione, è semplicemente
perfetto.
E
poi la copertina è veramente bellissima.