I
MIGLIORI DIECI ALBUM NON-METAL FATTI DA BAND/ARTISTI METAL
10° CLASSIFICATO: “DAMNATION”
Ci
sono giovani che lasciano la casa dei genitori alla prima occasione che capita:
basta anche solo un lavoretto al nero che possa garantire uno straccio d’indipendenza,
seppur precaria. Ci sono poi giovani che a casa dei genitori ci stanno bene,
perché mamma cucina e stira bene, e non se ne andrebbero mai. Ci sono infine
quelli che, poverini, vorrebbero anche andarsene, ma non se la sentono di fare
il grande passo finché la loro situazione economica non raggiunge una
rassicurante stabilità: aspettano dunque il famigerato contratto a tempo
indeterminato, che però giunge spesso dopo diversi anni di fottuta gavetta. In
certi casi, pur lavorando, attendono di accumulare quel tesoretto che permetterà
loro di comprare in un sol colpo una loro casa di proprietà, perché andare in
affitto è uno spreco ed imbarcarsi in un mutuo non conviene: è il caso degli Opeth,
che ci mettono sette album per provare ad allontanarsi dal Reame del Metallo.
S’inaugura
così ufficialmente la nostra classifica dei dieci album non-metal fatti da
band metal: essa parte però con l’album che fra tutti ci convince di meno.
Parliamo dell’”esperimento” compiuto con “Damnation”, uscito nell’anno
di grazia 2003.
Amo
la musica, ma spesso non i suoi protagonisti: non intrattengo rapporti
feticistici con l’artista di turno, né cedo alle tentazioni del culto della
personalità. Nella mia vita ho scritto una sola fottuta e-mail ad un gruppo. E
quel gruppo erano gli Opeth.
Correva
l’anno 2001, all’indomani dell’uscita del capolavoro “Blackwater Park”,
che fra l’altro abbiamo avuto l’occasione di analizzare su queste pagine. Che
si trattasse di un’opera superlativa, era una cosa evidente a tutti. Per quanto
mi riguarda, mi affezionai in modo particolare alla ballata di turno, “Harvest”.
Non era la “prima volta” per gli Opeth, che su quel fronte già si erano messi in
gioco, fra l’altro con risultati piuttosto buoni: “To Bid You Farewell”
(“Morningrise”), “Credence” (“My Arms, Your Hearse”), “Benighted”
e “Face of Melinda” (“Still Life”) erano stati ottimi momenti utili a
spezzare la brutalità pur sempre presente nel death-metal di stampo progressivo
promosso e perfezionato di album in album dagli svedesi. In queste circostanze i
Nostri sfoggiavano buon gusto e convincenti linee melodiche, corredate
dall’ottima prestazione vocale di Mikael Akerfeldt, che sul versante del
pulito si mostrava maturo e carismatico, più di tanti altri growler
prestati a lidi soft (ricordiamo che il growl di Akerfeldt rimane
uno dei più grassi ed efferati in campo death). “Harvest”, con le sue
reminiscenze pinkfloydiane, e forte del lavoro di regia compiuto dall’amico
Steven Wilson (Porcupine Tree), era a mio parere la migliore della serie.
Pertanto
mi chiesi: ma perché gli Opeth non fanno un album interamente composto da
ballate acustiche, visto che gli vengono così bene?
E
così mi decisi a scrivere al buon Akerfeldt, non tanto con la presunzione di
convincerlo a gettarsi nell’impresa, ma per dare un’ulteriore spintina qualora
permanessero delle reticenze al riguardo. L’album acustico degli Opeth
era comunque nell’aria, e, come idea, era nella testa di Akerfeldt già da tempi
non sospetti. Lui non lo sapeva, ma quando gli scrissi l’e-mail, tenevo ancora
a mente quel che affermò in una vecchia intervista, risalente addirittura ai
tempi di “Morningrise”: chissà, sarebbe bello un giorno far uscire un doppio
album, con una parte metal ed una del tutto acustica.
E
così scrissi l’e-mail, un po’ perché lo desideravo (un disco acustico degli
Opeth), un po’ per poter dire un giorno “gli Opeth hanno seguito il mio
consiglio!”, ben sapendo che così non sarebbe stato (nel senso che il mio
consiglio non sarebbe stato il fattore determinante di un processo artistico
già avviato e che doveva solo compiere il suo corso). Furbescamente leccai il
culo ad Akerfeldt in una maniera sfacciata che rasentava il ridicolo: c’andai
giù di brutto con la lingua, andando a paragonare “Harvest” alle storiche
ballate del rock, tirando in ballo persino nomi come “Stairway to Heaven”
e “Child in Time”. Cazzate, cazzate pazzesche, ma che sicuramente
avranno fatto un bell’effetto sull’ego di merda di Akerfeldt (ammesso che abbia
mai letto quell’e-mail).
Risposte
a quell’e-mail non mi furono mai recapitate, ma un bel giorno, poco dopo il
fatidico invio dell’e-mail, fu annunciato il progetto “Deliverance”/“Damnation”:
ossia l’idea di pubblicare, a stretto giro, due album, uno feroce e cupo e
rigorosamente metal, ed un altro che invece esprimesse solamente la sponda
melodica dell’Opeth-sound. Furono dunque ricalcate le intenzioni
originarie, perché i due tomi furono scritti in contemporanea e presentavano più
di una analogia: una parola con la lettera iniziale D come titolo; le belle ed
inquietanti cover in bianco e nero (curate dal sempre grande Travis
Smith), che si richiamavano a vicenda. L’idea di farli uscire come due
album distinti (e a prezzo pieno!) sarà stato sicuramente il frutto insano
della mediazione della casa discografica, visto che gli Opeth oramai erano
divenuti importanti e quindi una macchina formidabile per fare soldi.
Torniamo
dunque a quanto si diceva in principio: i pur rivoluzionari Opeth, nonostante
le grandi potenzialità espresse nel corso della loro carriera fin dagli inizi, c’hanno
messo sette album per lasciarsi i timori e il growl alle spalle. Passo
che, per esempio, i cugini/compagni di scuola Katatonia, avevano già
compiuto con il loro terzo full-lenght (quel “Discouraged Ones”
che li traghettò di colpo dall’ottimo doom/black di “Brave Murder Day”
ad una sorta di dark-rock molto più vicino al grunge che al black). Tornando
alla metafora iniziale, se i Katatonia sono stati i giovani intraprendenti che
hanno detto ciao ai genitori con il primo mezzo contratto a progetto in
mano (suscitando il sommo dolore della madre che singhiozzava disperatamente
dalla finestra al momento del commiato dei suoi bimbi), gli Opeth si son voluti
sentire proprio, ma proprio tanto, sicuri prima di varcare la soglia di
casa. Non bastava essere bravi, saper suonare, avere idee e cultura musicale, e
dunque avere un seguito discreto di fan che li supportasse qualsiasi
cosa facessero. No: hanno aspettato la consacrazione definitiva con l’ottimo
“Blackwater Park”, album che li aveva posti nel gotha dei migliori dei
migliori del metal di quegli anni.
In
verità, il tanto atteso binomio “Deliverance”/”Damnation” fu il classico
topolino partorito dalla montagna, perché gli Opeth, si vedrà anche in futuro,
sono bravi solo a fare gli Opeth: ossia ad integrare death e rock progressivo,
e non a percorrere i due binari separatamente. “Deliverance” (uscito nel
2002) rimane un ottimo album, ben costruito, tecnico ed ancora molto
ispirato, che paga però lo scotto di essere uscito dopo un capolavoro immane come
“Blackwater Park”. Inoltre, decurtare l’Opeth-sound della sua indispensabile
componente melodica (comunque presente nell’album) non si è dimostrata un
scelta felicissima.
Quanto
a “Damnation”, uscito poco meno di un anno dopo, semplicemente non è il
lavoro che ci aspettavamo: breve (poco più di quaranta minuti), con pezzi dalla
durata decisamente sotto la media, ma soprattutto poco ispirato e con una
scrittura così così, che soggiace a dei brani assai semplici e dagli sviluppi
prevedibili. Quanto agli arrangiamenti, tenuto conto che dietro il mixer
sedeva ancora una volta Wilson (che pure partecipa alla scrittura di un pezzo,
“Death Whispered a Lullaby” - peraltro nemmeno niente di speciale), si
poteva fare sicuramente di più e di meglio: i suoni non hanno spessore né avvistiamo
quelle belle sfumature che rendevano ricco e splendente un lavoro come
“Blackwater Park”. In una parola: i pur dotati Opeth non superano a pieni voti
l’esame, raggiungendo comunque la sufficienza, finendo così per deludere chi
all’epoca si aspettava da loro solo e solamente l’eccellenza. È come se i
nostri ragazzoni, una volta fuori di casa, si fossero ritrovati nel panico più
completo a gestire tutte quelle faccende che in casa, aiutando mamma,
sembravano inezie.
Perché
dunque includere l’album nella nostra classifica? Perché divelto lo strano velo
di opaca delusione iniziale, “Damnation” rimane un dignitoso dischetto che gira
piuttosto bene nello stereo. Ridigitando il tasto play riattacca quella
“Windowpane” che pensavano fosse solo un buon inizio, presagio di grandi
emozioni, e che invece, a conti fatti, rimane il pezzo migliore del lotto:
l’unico a rivaleggiare con la discografia passata della band (non a caso verrà
riproposto spesso dal vivo). Il ritmo fluido della batteria trasporta delicati
arpeggi di chitarra acustica e suadenti ondate di mellotron, sui cui movimenti si danno il cambio strepitosi solismi gilmouriani e la bella voce di Akerfeldt.
Per il resto si ha per le mani una manciata di oneste ballate (fra cui primeggia l'intimistica "Hope Leaves") che però di prog conservano veramente poco, salvo qualche spunto qua e là (tipo la coda strumentale di "Closure"): in questa circostanza gli Opeth preferiscono tralasciare le trame complesse che li hanno resi noti, per abbandonarsi ad un registro pacato che oscilla fra i Pink Floyd più dimessi e i King Crimson più romantici che hanno firmato ballatoni ad alto tasso di glucosio come “Epitaph” e “In the Court of the Crimson King”. Un’epicità irrequieta che sopravvive in brani dai ritornelli plateali come “In My Time of Need” (che rasenta Grignani) e “To Rid the Desease”, altro pezzo forte dell'album.
Le pulsioni settantiane sono in parte governate dalla mano di Wilson (che qua e là lascia un tocco dei suoi Porcupine Tree più alt-cantautoriali) e da un mood rigorosamente (quasi forzatamente) dark-depressivo, che poi non è altro che il senso di colpa che si manifesta nel metallaro che sceglie coscientemente di "tradire la causa" (un po' come quello che, se si taglia i capelli, si deve per forza rasare a zero, far crescere il pizzo e mettersi gli occhiali a goccia - insomma: diventare Rob Halford). Il ragionamento, più o meno, è: esco dal metal, ma lo faccio non in direzione pop, bensì inerpicandomi in sentieri "alternativamente malvagi". Cosa che, fra altro, va a nozze con il nostro senso di colpa: quello di noi ascoltatori che congiuntamente finiamo per "tradire la causa".
Per il resto si ha per le mani una manciata di oneste ballate (fra cui primeggia l'intimistica "Hope Leaves") che però di prog conservano veramente poco, salvo qualche spunto qua e là (tipo la coda strumentale di "Closure"): in questa circostanza gli Opeth preferiscono tralasciare le trame complesse che li hanno resi noti, per abbandonarsi ad un registro pacato che oscilla fra i Pink Floyd più dimessi e i King Crimson più romantici che hanno firmato ballatoni ad alto tasso di glucosio come “Epitaph” e “In the Court of the Crimson King”. Un’epicità irrequieta che sopravvive in brani dai ritornelli plateali come “In My Time of Need” (che rasenta Grignani) e “To Rid the Desease”, altro pezzo forte dell'album.
Le pulsioni settantiane sono in parte governate dalla mano di Wilson (che qua e là lascia un tocco dei suoi Porcupine Tree più alt-cantautoriali) e da un mood rigorosamente (quasi forzatamente) dark-depressivo, che poi non è altro che il senso di colpa che si manifesta nel metallaro che sceglie coscientemente di "tradire la causa" (un po' come quello che, se si taglia i capelli, si deve per forza rasare a zero, far crescere il pizzo e mettersi gli occhiali a goccia - insomma: diventare Rob Halford). Il ragionamento, più o meno, è: esco dal metal, ma lo faccio non in direzione pop, bensì inerpicandomi in sentieri "alternativamente malvagi". Cosa che, fra altro, va a nozze con il nostro senso di colpa: quello di noi ascoltatori che congiuntamente finiamo per "tradire la causa".
Quando il tutto termina, ti ritieni infine soddisfatto: dai su, non era poi così male, ma la voglia di premere nuovamente play francamente non è irresistibile. Almeno nell’immediato, tanto che l’opera finisce
nella categoria ASA (“Ascolti a Scadenza Annuale”). Eppure, se presentate
“Windowpane” al vostro amico scettico, quello che piscia sul metal ma apprezza robetta
calma e di classe, il vostro figurone lo farete sicuramente…
Black
face in the windowpane
Made
clear in seconds of light
Disappears
and returns again
Counting
hours, searching the night...