Affacciandoci
al terzo millennio assisteremo al ritorno sulle scene di molte glorie degli
anni ottanta: Destruction, Exodus, Death Angel. Ma non
solo: persino i redenti Metallica e Megadeth torneranno ad
indurire i suoni, riprendendo a suonare thrash come se niente fosse. Belladonna
tornerà negli Anthrax, Skolnick nei Testament, Lombardo
negli Slayer, ma l’effetto “ritorno del figliol prodigo” poco gioverà
allo scenario: non è una questione di onestà o di opportunismo, ma di linfa
vitale e creatività, e di quelle non ve n'è traccia!
Ci basti dunque sapere che c'era voglia di thrash e che questo vuoto stentava ad essere colmato.
Ci basti dunque sapere che c'era voglia di thrash e che questo vuoto stentava ad essere colmato.
Voltiamoci
dunque verso il metalcore, che fra i disparati non-generi dei
nostri anni è quello che più di tutti si avvicina alla missione del thrash. Fra
i maggiori esponenti del genere troviamo degli insospettabili In Flames
che dal 2002, con l'album "Rerout to Remain", decidevano di
scollegarsi in parte da quel melodic death metal che li aveva resi popolari,
per abbracciare un sound più moderno: sopravvivevano gli spunti
melodici, ma il groove e la forza d'urto della band americane era
entrato nel DNA degli svedesi. Con il thrash niente ci azzeccano, ma teniamoli
un attimo da parte: ci serviranno dopo.
Si
parlava di band americane e non a caso è stata coniata la dicitura New
Wave of American Heavy Metal che vede gli Stati Uniti riappropriarsi dello
scettro del metallo dopo un decennio di strapotere europeo. Poiché si procede
per simbologie, indicherei quale band simbolo di questa nuova era i Lamb of
God, che coniugavano Slayer a Pantera facendosi promotori di un sound
violento ai limiti del death (di cui album come "Ashes of the Wake"
(2004) e "Sacrament" (2006) costituiscono attendibili
testimonianze). Per via del cantato in (pseudo)growl si parlerà di deathcore,
ma è indubbio che il corpus sonoro sia thrash metal allo stato puro (ritmiche
serrate, stop & go, stacchi ultra-mosh, riffing
tagliente, provvidenziali rallentamenti: insomma, thrash!). Non chiamiamo questa
musica con l’appellativo thrash solo perché siamo nell'era in cui se ad uno
scappa una scorreggia, egli viene subito bollato come fart-metal, ma nei
fatti non siamo poi così lontani da certe estrinsecazioni più estreme dei
vecchi Pantera (O Metal, quanti pochi passi in avanti hai fatto negli ultimi
quindici anni!).
L'etichetta
thrash verrà invece spolverata per i Triuvium, rivelazione degli anni
zero e pane per i denti di tanti giovanissimi. Il loro mix è spudoratamente
ruffiano e successivamente ad "Ascendancy" (2005) lo diverrà
ancora di più grazie ad album come "Crusade" (2006) e "Shogun"
(2008), che allargheranno ulteriormente il divario fra chi li idolatrerà e chi
li avverserà ferocemente in quanto traditori. La loro ricetta mette insieme elementi estremi e
classici, groove e ritornelli melodici come insegnato dagli In Flames
(eccoli!) e come è tipico del metalcore in generale. Il tutto in un contesto easy-listening-finto-arrabbiato:
thrash, hardcore, melodie maideniane, ma alla fine (complice l'ugola di Matt
Heafy molto simile a quella di Hetfield) sembra di ascoltare i
Metallica di "Master of Puppets". Se è questo il thrash
metal del nuovo millennio siamo messi male, ma del resto chi siamo noi per
giudicare?
Eccoci
dunque arrivati ai giorni nostri: vado su YouTube e mi ascolto "Chronicles
of the Dead", opener dell'album di debutto dei Meshiaak,
da cui il nostro ragionamento era partito (vi ricordate?). Ma purtroppo non mi
sconvolgo: si, costoro suonano indubbiamente thrash, con un riffing
aggressivo di chiara marca slayerana, ritornello rallentato in stile
Pantera, con addirittura sfumature vocali à la Alice in Chains. Il
leader Danny Tomb passa con disinvoltura dalla voce grossa a
quella pulita, ma non si stupisce più nessuno e del resto il metalcore abusa di
questa formula da anni. Un gradito ritorno, invece, è quello dell'assolo,
melodico e di gusto, valorizzato da una produzione curata che evidenzia, nei
sei minuti e passa di durata del brano, la discreta tecnica sfoggiata dai
musicisti. Nel finale non ci si fa mancare nemmeno un bell'arpeggio. Pertanto,
uno si chiede: ma cosa c'è che non va?
I
suoni, troppo levigati, tolgono veracità al tutto e il pezzo non ha mordente,
tanto da suonare prevedibile dalla prima all'ultima nota, senza mai stupire
veramente. Laddove il thrash al culmine del suo splendore, invece, non passava solo da
tecnica e gusto melodico: c'era della genialità in quelle partiture, un
guizzo di genialità che traboccava dalle mani di "giovani con il fuoco
dentro" (o l'eroina, fate voi) e che finiva per scardinare continuamente
gli schemi, invece di rispettarli alla lettera come succede oggi.
Tirando
le somme potremmo concludere che il thrash, come il punk, rimane una
rivoluzione importantissima che ha saputo generare veramente "qualcosa di
nuovo" e che ha lasciato dietro di sé un linguaggio adattabile ai contesti
più diversi. Ma come genere in sé il thrash non sembra oggi possedere le
qualità per attecchire nuovamente, né sono riuscite a raggrupparsi nuove band extraordinaire
a giustificare la riesumazione del glorioso vessillo: tant'è che alla fine
potremmo sostenere che il thrash è veramente morto.
Oppure
è solo colpa delle lenti che adottiamo di volta in volta per leggere ed
analizzare la realtà. In un mondo in cui proliferano etichette per definire generi,
de-generi e sotto-generi, la concezione del thrash si è
appiattita, semplificata, come se suonare thrash significasse solo picchiare
duro e gridare, muoversi lungo un segmento assai breve che va dall'aggressività
degli Slayer al groove dei Pantera. Tutto ciò che esce da questa
dimensione viene classificato come “altro”, qualcosa che non è più thrash: una concezione che, almeno a livello teorico, toglie al thrash
ogni possibilità di movimento per potersi sviluppare e riaffermare.
La
domanda dunque a cui rispondere non è se il thrash è morto o meno, ma la
seguente: dimenticandoci del fatto che il thrash in origine era stato qualcosa
di più e di più complesso (un mondo che ha saputo ospitare suite strumentali
come “The Call of Ktulu” ed “Orion”, ballate come “Fade to
Black”, i clamorosi intrecci chitarristici di Mustaine e Friedman,
la potenza wagneriana di una "Season in the Abyss" e la
strisciante inquietudine di una "Dead Skin Mask", le influenze
neoclassiche che si sono portati dietro i Mekong Delta, il virtuosismo e
il gusto melodico di chitarristi come Tom Vetterli dei Coroner o Jeff
Walkers degli Annihilator), dimenticandoci tutto questo, si diceva, come
è possibile poter issare ancora una volta nel cielo del metal la gloriosa
bandiera del thrash?
Ai
posteri l’ardua sentenza…