Il giorno del mio compleanno, i
Judas Priest hanno annunciato l’uscita del loro diciottesimo album: “Firepower”. E, pur non sentendo vibrare l’attesa nell’aria, ho registrato questa
coincidenza come un segno del destino e mi sono girato a dormire dall’altra parte.
Nel momento in cui il 5 gennaio hanno pubblicato il loro primo singolo ho
compreso che le coincidenze erano troppe, perché un altro membro della nostra
redazione compie gli anni in quella data e allora mi sono iniziato ad
interessare alla questione.
Siamo noi che guardiamo ai Judas
o loro che guardano a noi?
Come quando esci per strada con
quella strana sensazione di essere pedinato, ti volti e noti una persona che si
allaccia la scarpa; o al bar mentre prendi un caffè senti sussurrare il tuo nome
come in sogno. Così mi sono avvicinato a questo disco dei Judas Priest, con lo
stesso sospetto di quando ti togli le mutande dopo aver scoreggiato forte.
Inoltre quando ho appreso quasi casualmente che Glenn Tipton ha contratto
il morbo di Parkinson, proprio come mio nonno, ho capito che erano tutti segni
del destino.
Mi dispiace per Glen perché a 70
anni sembra un prezzo beffardo da pagare per tutti i suoi riff, il suo
headbanging e le sue agitazioni che diventano un movimento degenerativo perenne.
Infine ho scoperto di avere un
problema: se ascolto i primi minuti di una nuova canzone dei Judas Priest,
magari guardando anche il video promozionale, devo ripetermi nella testa
continuamente: Non pensare che è frocio, non pensare che è frocio, non
pensare che è frocio... non so perché, ma è così ...scusa Rob!
È successo anche per il nuovo singolo “Lightning Strike” che peraltro è una bella performance dei nostri, tre
minuti di Santa Vecchiaia Metallara con classe, così come per quei pochi
secondi della titletrack che ho ascoltato.
Non nascondiamoci che il problema
di questo album è l’autoreferenzialità: i Judas Priest sono diventati da tempo
uno specchio di loro stessi. La differenza tra i grandi autori in ogni ambito
culturale è la consapevolezza di questo passaggio, perché alcuni credono in se stessi
così tanto da pensare di essere sempre i migliori (ad esempio i Manowar),
mentre altri sono troppo fieri di quello che hanno fatto in passato che cercano
di replicarlo (in questo i Black Sabbath sono il caso più calzante). I mostri
sacri del Metal che escono da questa impasse sono a mio avviso gli Iron Maiden che, pur consapevoli di essere un simbolo, riescono a mantenere alto il loro
nome con uscite discografiche di livello discreto, ma soprattutto genuine nella
genesi e in esecuzione.
I Judas Priest si collocano in
mezzo a queste strade, sofrnando sempre dischi di livello più che sufficiente, ma
entrando nel meta-priest-ismo. Come l’analisi logica è una
riflessione metalinguistica sull’italiano, dove si scompongono le parti di una
frase per riflettere sulla costruzione interna della stessa, così un album dei
Judas è suddiviso in tracce per capire la struttura e il grado di saturazione
del gruppo.
Da quello che ho sentito sinora
perciò “Firepower” ha un discreto livello di citazionismo, mescolato a un grado
onesto di ispirazione. Per questo ho deciso di considerarli ancora, di
aspettare l’uscita completa a marzo per ascoltare senza fretta.
Non saremo i primi a recensirlo,
ma li osserviamo e li aspettiamo con rispetto e un pizzico di rammarico come se
fossimo nella sala di attesa di un ospedale, in attesa della diagnosi completa
su Tipton (anche se forse l’esito lo sappiamo già).