Ci sono voci particolari,
irriproducibili, uniche, che possono segnare l’identità di una canzone come la
dentatura di Ted Bundy firmava gli omicidi sulla carne delle vittime. Una
scheggiatura traditrice, che rende un morso anonimo “il tuo morso”, che nessun
altro avrebbe potuto lasciare. Bundy, che aveva assunto la propria stessa
difesa in aula, guardava e riguardava quelle foto della dentatura,
arrampicandosi sui vetri, ma nel silenzio improvvisamente il suo sguardo vi
appariva come lo sguardo di un assassino.
Due di queste voci sono quelle di Augusto Daolio dei Nomadi, e Attila Csihar dei Mayhem.
Ascoltai per la prima volta i
Nomadi ne “I Nomadi cantano Guccini” (1973), illuminante per far capire che differenza
può fare la voce di Daolio. Le stesse canzoni cantate da Guccini finiscono per
essere delle canzoni gucciniane minori, cantante con il solito tono
finto-annoiato e supponente del Maestro, che potrebbero iniziare tutte con un Pfff,
che palle, suvvia te la canto… e finire con Che figo! Prova a scriverli tu
pezzi così!. Ma lo stile di Guccini ha un che di strascinato e uniforme, e qui
sta un po’ la sua potenza espressiva, che fa risaltare soprattutto la parola e
la sua forza evocativa, la forma del verso, le metafore, spesso al limite del
recitativo puro, o comunque in un cantato che segue una metrica ripetitiva e
sonnacchiosa. La celebre “Canzone per un’amica” è una riflessione amara e
lontana, un epitaffio per un’amica morta in un banale incidente stradale, la
cui memoria è così salvata in ragione di un canale affettivo personale, che diviene
universale nella sua funzione funebre. La prende in mano Daolio dei Nomadi, e
diventa una telecronaca: lui è lì, passo passo, la rende psichedelica, in senso
letterale, cioè anima i versi e li rende espressivi in diretta. Quella storia
anonima diviene un fatto personale di chi la canta in quel momento, e il
pubblico sta a guardare e si vive questo trip funebre.
Ma verifichiamo con un altro
grande successo: "Dio è Morto". Guccini la canta in maniera seriosa, religiosamente,
perché il messaggio del brano è in fondo tronfio, quasi alla Manowar: il mondo
uccide la giustizia e i valori umani, ma noi li faremo risorgere con la nostra
rivoluzione culturale. Bella, piacerebbe al Papa (qualsiasi, tranne forse a
Ratzinger), epica, niente da dire. La metti in bocca a Daolio, diventa una cosa
irrisoria. Una prima parte con una carrellata da horror visionario, in cui si
raccontano le brutture del mondo espresse anche da oggetti e attività della
moderna quotidianità (i bordi delle strade, gli odi di partito, le vacanze).
Una seconda parte, quella in cui si dichiara metaforicamente la resurrezione dell’umanità
con lo sforzo che le nuove generazioni faranno, che è sarcastica, allucinata
più che visionaria. Così come nella canzone sulla guerra di De Andrè, “Girotondo”,
il messaggio umanitario che pare prendere il volo è poi affossato da una
pioggia acida, che riporta il futuro dell’uomo sul piano di un gioco illusorio,
di velleità e pruriti giovanili.
I Nomadi, lasciati alle proprie
composizioni, sfornano dei brani avvolgenti e intriganti, sospesi tra iconografia
del quotidiano (i Tre Miti) e mitologia delle vicende umane. I racconti delle
piccole miserie umane sono utilizzati come modelli eterni (la storia delle
sorelle Utopia e Verità), a significare che le piccole vicissitudini dell’uomo
qualunque sono prova dall’incorreggibilità delle nostre debolezze, passioni e fissazioni.
La voce di Daolio è il dito nella
piaga. Infila laddove vede aperto, tira su con l’unghia dove affiora il pus, schiaccia
dove vede una zona arrossata. Daolio sta alla musica come Dario Argento sta all’horror:
non lascia nulla all’immaginazione, non lascia che l’ascoltatore rifletta, lo
guida alla scoperta dell’orrore fisicamente, attraverso le inflessioni con cui traccia la linea vocale. Contemporaneamente però, non si scompone mai, non
si sfilaccia, mantiene un’impostazione, è uno strumento con un suo timbro. Il
suo timbro è in qualche modo inquietante, è un segnale sonoro stridente, che
però regge intrinsecamente, nel suo sviluppo, come le voci “stonate” di Tenco,
di Ozzy, e di tanti altri. Come quella di Attila.
"De Mysteriis Dom. Sathanas" poteva
essere un disco gucciniano: brani efficacissimi, ipnotici, martellanti come noi
mai. Esemplari insomma, ma già a quell’epoca superati. Se non fosse stato che c’era
un elemento di asperità, uno strappo nella tappezzeria, qualcosa che rendeva “unica”
quell’oscurità. L’oscurità parlava, aveva una voce, parlava di sé. Sappiamo bene
che la maggior parte delle voci black, per quanto riconoscibili, sono di
maniera: devono essere voci senza identità, proprio per l’ideologia stessa del
black, se si vuole. Il black deve corrispondere ad una volontà cieca, ad una
vitalità senza nome, diffusa “coi cuori rivolti a nessuno”, per citare gli MGLA.
Qui invece abbiamo un disco firmato, “Attila” canta i Mayhem in altre parole.
Quel disco rimane atipico, pur essendo uno dei dischi di fondazione del black metal. Ha in sé il black burzumiano, ha quello darkthroniano, eppure ha
qualcosa di più, sembra emanazione di un morbo individuale, personale, sembra
che l’oscurità voglia farci vedere casa sua, i suoi ricordi, le sue foto dall’album di famiglia.
Guccini è più black classico.
Canta serrato, a testa bassa, con espressione ferma, alternando due accordi.
Narra delle storie, ma come le vive lui non sono cazzi dell’ascoltatore. Daolio
e Attila si siedono a tavolino e ci vogliono raccontare la loro versione dei
fatti, farci toccare le loro ferite, mettere la mano dentro la loro Bocca della
Verità.
Se ci pensate, il fatto che un
brano sostanzialmente legnoso come “Io Vagabondo” faccia breccia nel cuore
dell’ascoltatore è legato alla chimica particolare tra le inflessioni della
voce di Daolio e le parole del brano. Senza, il brano si alleggerisce e diventa
una carcassa di piccione: forata, spennata, di poco conto. La pronuncia vibrante
e torchiata di “una notte di Settembre mi svegliai, il vento sulla pelle” o “il
fuoco di un camino”, richiedono appunto una voce che introduca elementi di
calore in un tappeto sonoro altrimenti troppo freddo. Lo stesso accade nel
calore di Attila che è l’olio nella padella dei Mayhem, senza cui tutto si
cuoce sul calore del fornello ma niente sfrigola.
L’effetto disturbante è dato
proprio da quegli schizzi d’olio che le interpretazioni dei Nomadi ti costringono
a sentire, perfino nel loro brano più funeral doom, “Il vecchio e il bambino”.
Un’allegoria della vita che conduce se stessa verso la propria fine, che
coincide con l’inizio di un’altra vita, nell’illusione umana di un’eternità. Le
due figure camminano fianco a fianco nella polvere rossa che si alza da terra.
Il bambino sogna cose che non conosce, il vecchio ormai sogna cose trasfigurate da nei ricordi. Insieme svaniscono nel nulla, con la promessa di una “nuova fiaba”
da raccontare, di un sogno in cui scomparire. Molto lovecraftiano.
Ora, Guccini è bravo, come
Maniac, ma il tutto diventa una cantilena, uno intorno al fuoco con la chitarra
che canta insieme agli altri. Quando cantano Daolio e Attila invece si sta zitti,
perché lo sta proprio dicendo lui, con il coraggio di un individuo, è suo il
morboso attaccamento alla vita che si sta spegnendo. L’impronta di voci come
queste è tale che riescono a umanizzare le canzoni più marce del mondo, come la
stessa "Deathcrush". L’urlo di Attila è qualcosa di carnale, ben diverso da
quello brullo e di maniera con cui il brano originariamente era stato
concepito, per rimbombare dentro una grotta.
Alla fine, l’impressione che si
ha ascoltando la discografia dei Nomadi è sentire il racconto doloroso e
sarcastico di un uomo che poi ci lascia nelle mani il suo diario e scompare.
Potremmo soltanto raccontare, per sentito dire, come era la sua voce. Allo stesso
modo De Mysteriis realizza, accidentalmente con l’inserimento di Attila postumo
a Euronymous, un “racconto in prima persona” del black metal, che da lì in poi
sarà invece una poesia impersonale di ciò che un tempo è stato il male in carne
e ossa.
Il vecchio e il bambino scompaiono
all’orizzonte del sole caldo della sera, sepolti dal tempo e dalla polvere
("Buried by Time and Dust").
A cura del Dottore