Trentaduesima puntata: Abyssmal Sorrow - "Lament" (2008)
Continua il nostro excursus extra-rassegna volto a sondare gli ultimi anfratti che si nascondono nel Gran Tempio del funeral doom. Parliamo oggi di “Lament”, unico full-lenght rilasciato dagli australiani Abyssmal Sorrow.
Come preannunciato, il nostro cammino in questa appendice si farà ancora più ostico: la voragine che si apre con l’ascolto di “Lament” (un titolo un programma) ci fa sprofondare in una dimensione ancora più oscura ed opprimente del doom estremo. Siamo al confine con il depressive black metal, lo diciamo subito a scanso di equivoci...
La bella e delicata copertina potrebbe far presagire prelibatezze gotiche, ma l’iconografia adottata dalla band è indiscutibilmente black metal con tanto di face-painting, pose di ostentata sofferenza e bracciali chiodati. Non
si sa praticamente nulla degli Abyssmal Sorrow: la band è passata come
una meteora nel firmamento del metal estremo degli anni zero. Nei
quattro-cinque anni di vita della band sono stati rilasciati solamente
un EP (l’omonimo “Abyssmal Sorrow”, del 2007), un album (il qui presente “Lament”, del 2008) ed una compilation postuma (sempre “Abyssmal Sorrow” – viva la fantasia! – che in realtà non fa altro che raccogliere insieme EP e album: in pratica tutto quello che i Nostri hanno dato alle stampe).
Non siamo ai livelli degli Ea,
di cui non si sa proprio nulla - nemmeno la provenienza - e che persino
si sono inventati una lingua, ma l’alone di mistero che avvolge i
lavori degli australiani Abyssmal Sorrow (si presume siano un duo, stando a quello che si scorge nei rari scatti che ritraggono la band) è il medesimo, forse ancora più
fitto, considerata la proposta più estrema e inzuppata fino al collo
nelle morbose ed affliggenti dinamiche e tematiche del depressive black
metal.
La voce è settata su uno screaming disperato (con gorgoglianti varianti su tonalità più basse) ed anche la produzione sporca rimanda all’approccio lo-fi del black metal. Saranno dunque contenti i fan di Nortt, progetto cardine del filone blackish del funeral doom che abbiamo già avuto modo di trattare. Ma potrebbero gioire anche coloro che si sono ritrovati ad apprezzare il sound caracollante dei Worship nei loro momenti più raggelanti: con essi gli Abyssmal Sorrow condividono il gusto per un doom impregnato di truce nichilismo. Del resto la lentezza, la pesantezza e la lunghezza dei brani ("Lament" conta sei tracce per un totale di cinquantaquattro minuti), tutto questo rimanda
ai canoni classici del funeral doom, a cui i Nostri sono generalmente ricondotti.
I legami con il doom sono evidenti appena si preme il tasto play. L’attacco di “Bound in Lifeless Affliction”, ossia i nove logoranti minuti di apertura di “Lament”, rimanda subito alla malinconia di cui è intrisa la classica poetica dei My Dying Bride: una eco, sarebbe bene precisare, che richiama certe movenze della Sposa Morente. Certo, Stainthorpe e soci sono di un altro pianeta quanto ad invenzioni melodiche, ma la commistione fra la recrudescenza della chitarra e le avvolgenti tastiere (in secondo piano ma comunque udibili per tutto il platter) "riluce" di un magnetismo che rende davvero valido l'operato degli australiani.
Le prime tracce di “Lament” si muovono più o meno sulle stesse coordinate: i pattern ritmici, tanto lenti quanto lineari e scevri da ogni tentazione di varietà, sembrano ripetersi pari pari brano dopo brano, mentre uno screaming soffuso e strascicato fa da didascalia ad un doom non privo di un certo fascino melodico. Soprattutto gli inserti di chitarra arpeggiata (ma io includerei anche il break con tanto di rumore della pioggia nella già citata opener) offrono utili diversivi ad una proposta che sa scorrere senza intoppi e senza momenti particolarmente soporiferi grazie al "brio" dato dall'approccio black metal (notoriamente una “ventata di freschezza” nell’opprimente mondo del funeral doom).
Composizioni come “Requiem for the Dying Moon” (la mia prediletta, con una seconda parte da brividi) e “Cavernous Sorrow and Worthlessness”, per esempio, offrono partiture acustiche al loro interno atte a snellire una pesantezza di umori altrimenti insopportabile. I temi trattati, del resto, sono quelli tipici del depressive black metal: depressione, suicidio, morte. E la musica calza loro a pennello, emergendo come una sincera espressione di certe sensazioni, grazie anche ad un approccio “de core” di cui la componente black metal si fa garante.
Una ulteriore discesa nel baratro è dettata dalla imponente suite finale, divisa in due parti. “Austere Lament Part One” è una sorta di introduzione atmosferica con tanto di suggestivo recitato con voce pulita, mentre “Austere Lament Part Two” rallenta ulteriormente il passo e ci getta nelle braccia del più sconfortante funeral doom, con sempre la chitarra arpeggiata a rischiarare il cammino: quasi venti minuti da antologia che collocano di fatto la band fra le realtà più ispirate dell’underground estremo.
Come si suol dire, è questione di gusti: “Lament” è considerato dai cultori del genere come un caposaldo per quanto riguarda l'incrocio fra sonorità black e doom, e certo saprà offrire un piacevole intrattenimento a tutti coloro che, del funeral doom, amano la variante più “nera” e deprimente. Gli altri se ne possono sempre andare a Sharm el-Sheikh a fare snorkeling...