"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

8 gen 2023

AN EVENING WITH...FIELDS OF THE NEPHILIM (LONDON, 17/12/2022)



Siamo già da qualche giorno nel 2023, ma io vorrei tornare alla fine, vorrei un attimo rivisitare l'anno appena trascorso per descrivere quello che è stato il mio ultimo concerto dei dodici mesi targati 2022. 

Il 2022 è stato l'anno della ripartenza per la dimensione concertistica, e dunque gridiamolo finalmente: che bello essere tornati sotto ad un palco! Altri redattori di questo blog si son fatti fior di concerti e festival fra estate ed autunno, ma per pigrizia (peste li colga!) non hanno voluto scrivere nulla. Per me invece ripercorrere le serate live non è solo un necessario momento di analisi, ma anche un piacere... 

Mi è molto mancata la dimensione live in questi ultimi due anni e sulle prime l'eccitazione di un mio ritorno fra la folla si è andato a mescolare con qualche timore post-pandemico. Il rientro fu in punta di piedi con il post-rock di A.A. Williams, ma è bastato un attimo per ritrovarmi fra le stelle con gli Emperor (all'Incineration Fest). Dopo queste altitudini è stato tutto più semplice, quasi routinario, più che altro è stato un togliersi sassolini dalle scarpe (per occasioni perse in passato) o piantare bandierine sul CV: Einsturzende Neubauten (finalmente!), Imperial Triumphant (perché no?), Deaf Heaven (perché no? - parte seconda), Anthrax (e chi l'avrebbe mai detto?!?), Fontaines D.C. (doveroso esserci). Una sequela di nomi, questi, che poco sembrerebbero avere a che fare l'uno con l'altro, ma del resto quando si hanno gusti negli ambiti più disparati è facile vedersi sballottati da un capo all'altro del mondo della musica. 

Detto questo, era ora di tornare a casa, e dunque eccomi in questa gelidissima serata invernale contornato da energumeni nero-vestiti con alte zeppe sotto gli anfibi, lunghe giacche di pelle e cappelli da cowboy. Suonano i mitici Fields of the Nephilim, per chi non li conoscesse (peste lo colga!): una leggenda del gothic rock britannico! 

Perché ero lì? Per vari motivi. Anzitutto era sabato sera, poi il locale dista dieci minuti a piedi da casa mia (che bella Londra quando accadono queste cose!). Ma soprattutto questo per me era un vero conto in sospeso: i Fields of the Nephilim infatti sono degli habitué dell'O2 Shepherds Bush Empire Forum, nel senso che capitano spesso qui (nel medesimo locale hanno registrato l'ottimo live "Ceremonies"). La venue è proprio "dietro casa mia", ma per vari motivi (fra cui veri e propri colpi di sfortuna), non sono mai riuscito ad andare. E dunque questa volta non potevo mancare! Last but not least, a me i Fields of the Nephilim piacciono, e mi piacciono per due motivi. Uno, perché sono fra i più rock e pesanti dell'"ondata oscura": picchiano duro, sono epici, il latrato di Carl McCoy è quasi un growl (e divenne un growl vero e proprio nel progetto industrial/death/gothic metal Nefilim - sì, ho amato alla follia "Zoon", anno di grazia 1996!). Due, quando non pestano diventano sublimi, pinkfloydiani, lisergici, sciamanici (si veda alla voce "Love Under Will" e "Last Exit for the Lost"). E proprio in questi momenti da sempre anelo poter sprofondare felice, ubriaco fradicio e ad occhi chiusi, fumando una sigaretta immaginaria... 

Avevo appreso nel pomeriggio che l'esibizione avrebbe fatto parte di un mini-tour di tre date in cui sarebbe stato ripresentato per intero "The Nephilim", capolavoro del 1988. La notizia tuttavia viene da me accolta con un po' di freddezza, perché a me piacciono molto anche il debutto "Dawnrazor" e soprattutto il successivo "Elizium" con le sue atmosfere languide e fumose (in particolare avrei pianto l'assenza in scaletta di "At the Gates of Silent Memory", che fa parte della fortunata serie dei "brani colossali dei Fields of the Nephilim", quelli lenti e dissoluti che ti spediscono direttamente all'Inferno). Incassata la notizia, stranamente continuo ad avere buone sensazioni in merito all'evento. Del resto, come la band, anche io "stasera gioco in casa". E perdonatemi se passo subdolamente al presente, ma è l'unico modo che ho per meglio ripercorrere le sensazioni della serata... 

Ennio Morricone in sottofondo ci sta come il cacio sui maccheroni: un antipasto delicato che è un piacere assaporare con una birra in mano mentre faccio i miei consueti giri di ricognizione per il locale. Le buone sensazioni continuano a pervadermi con il post-punk sgangherato degli opener The Membranes. Si tratta di una realtà storica del post-punk britannico: attivi dal 1977, i Nostri hanno rilasciato una manciata di album fra l'83 e l'89. Si può sicuramente dire che loro c'erano, ma si capisce anche perché non ce l'hanno fatta. Il sound non è un granché personale e la forma fisica dei componenti, almeno nell'aspetto, suggerisce biografie inconcludenti di gente che ha visto tempi migliori. In verità spulciando in rete apprendo che John Robb (basso e voce) si è negli anni reinventato come giornalista, scrittore, commentatore e personaggio televisivo, mentre Mark Tilton (chitarra) niente meno che come sceneggiatore e regista. Appurato questo, la band sembra essere sul palco quasi per ammazzare il tempo, auto-tributando la propria non-storia. A colpo d'occhio mi ricordano i CCCP, con Robb nella parte di Giovanni Lindo Ferretti e la corista in quelli di Annarella. Ma l'ho detto, continuo a percepire buone vibrazioni: il basso muscolare di Robb mi ingagliardisce (più della sua voce sfiatata e pedante e della sua cresta verde fuori tempo massimo), il resto son ritmi secchi e quadrati ed una chitarra al vetriolo improntata al rumorismo, il tutto condito dal canto esotico (??) della vocalist. Mi mettono simpatia questi marci inglesi che non avrei mai visto se non avessi abitato a Londra: sono i rappresentanti di un'era che quelli della mia generazione hanno vissuto tramite l'ascolto postumo dei dischi o la lettura di retrospettive sull'argomento. Bello poter vedere ancora degli esemplari ancora viventi di quella esaltante stagione del rock e toccare con mano quello spirito underground che ha caratterizzato la terra d'Albione a cavallo fra gli anni settanta ed ottanta. 

Va tutto benissimo ed arrivo al cospetto dei Fields of the Nephilim con tre bevute in corpo. Non male. Prima di parlare della musica vorrei però menzionare un fatto spiacevole. Mi trovo in una buona posizione, molto centrale e non troppo distante dal palco, ma accanto a me ho un tizio che -  non so perché - mi deve premere insistentemente sul fianco, in un contesto in cui non c'è ressa né gente pressata. Peraltro il tizio mi sembra uno a posto, un cinquantenne con donna che con questo comportamento inspiegabile mette in seria discussione la mia ferrea convinzione per cui i pelati con pizzo sono in genere persone affidabili. Posso spostarmi di 20cm ma decido di non cedere e dunque per i primi due brani si consuma questa scena surreale in cui due imbecilli premono i loro corpi l'uno contro l'altro ostentando incuranza ma impegnando discrete forze per non cedere di un millimetro il proprio spazio di dignità. Ad un certo punto c'è persino un gesto di stizza reciproco, ma il fatto che non si passi alle mani palesa che non ci sia voglia di violenza, che è un bene. Poi, con i coglioni pieni di questa situazione, mi sposto di 20cm e tutto finisce. Boh. Ma per tutta la serata avrò problemi con la gente: io che amo triangolare fra bar, cesso e palco non sono certo una presenza piacevole per chiunque, ma cazzo, siam pur sempre ad un concerto!, e quasi rimpiango la bonarietà del pubblico metal che ti fa sempre passare. Odiato da tutti questi stoccafissi dark di cinquant'anni portati malissimo, mi è toccato stanziare sistematicamente dietro a gente altissima (siamo al paradosso!) per non urtare la sensibilità di nessuno, ma guarda te dove siamo arrivati! Penso seriamente che forse l'era dei concerti in piedi è finita per me, che forse è il caso di valutare l'opzione di sedere in tribuna fra i vecchi dove mi posso alzare e tornare quando cazzo mi pare conservando il mio posto. Purtroppo non sto scherzando. 

Detto questo il concerto è stato una bomba e nettamente sopra le aspettative. I Fields of the Nephilim saranno anche una band storica che campa cavalcando un "mito" che si è alimentato grazie a tre album usciti nella seconda metà degli anni ottanta, ma cazzo se ci sanno stare sul palco! Scordatevi le performance imbarazzanti che possono offrire oggi quel che rimane di Sisters of Mercy e Christian Death: qui abbiamo suoni potenti ed una band compatta ed affiatata nell'edificare un suono massiccissimo. Il resto lo fanno echi e delay che moltiplicano all'infinito lo sforzo dei musicisti (ti piace vincere facile, eh McCoy?). Della formazione storica, oltre che all'imprescindibile frontman, abbiamo il bassista Tony Petitt, le cui quattro corde non sono cosa secondaria nell'economia del suono della band. 

Il carattere vincente dei Fields of the Nephilim dal vivo è quello di credere ancora di poter ricreare un rituale collettivo, cosa che si evince su disco ma che sul palco diviene ancora più palese. E poi i Nostri possono contare su un repertorio assai omogeneo, cosa che alimenta l'idea di un magico flusso sonoro piuttosto che quella di una carrellata di canzoni. E, beninteso, le canzoni non mancano. Intro atmosferico, poi l'ingresso del carismatico McCoy: le interazioni con il pubblico sono ridotte all'osso, ma gli occhi sono tutti su di lui, o meglio, sulla caratteristica silhouette, su sfondo "rosso Inferno", con il proverbiale cappello da cowboy e la figura del cantante (o meglio, del cerimoniere) ripiegata sul microfono come un titano che esala i suoi ultimi rantoli prima di morire. 

Esplode "Endemoniada", commuove "The Watchman", aggredisce "Phobia" con il suo incedere motorheadiano: il trittico di brani iniziali è da KO tecnico. È poi la volta del classicissimo "Moonchild", seguito da "Chords of Souls" e "Shiva" e l'impressione è quella di assistere ad un concerto di melodic death metal, tanto che le chitarre sono solide e il lamento rauco di McCoy si avvicina ad un growl. Ma io sono in attesa della porzione finale del set, perché - l'ho già detto - a me i Fields of the Nephilim  piacciono quando divengono lenti ed atmosferici. Non definirei "Celebrate" una vera ballad, ma il suo andamento meditabondo, il canto da ubriaco di McCoy, le luci rosse, ne fanno un passaggio interlocutorio necessario per accedere all'incredibile accoppiata "Love Under Will" e "Last Exit for the Lost" (bello aver potuto assistere alla loro riproposizione una dopo l'altra): una autentica discesa negli Inferi. I suoni si dilatano, si fanno fumosi, ipnotici, le chitarre scoppiano e ci inondano di elettricità, il concerto diventa un lento vortice dove sprofondare in stato di trance. Essendo ormai un po' di lato con le luci del banco del bar a rompermi i coglioni, mi godo questi ultimi venti minuti ad occhi chiusi, rasentando l'orgasmo. 

Devo a questo punto fare una precisazione sulla conclusiva "Last Exit for the Lost", che oserei annoverare fra i migliori momenti live vissuti dal sottoscritto. Il brano (circa dieci i minuti di durata) è la "The End" dell'epopea dark, dall'andamento sinuoso, onirico, con le declamazioni da sacerdote invasato di McCoy, qui sorta di incrocio fra un Jim Morrison delle tenebre ed un David Bowie catacombale. Ma la parte più coinvolgente è l'inaspettata accelerazione nel finale, con quei cori del pubblico in delirio che si uniscono alla declamazioni del cantante che grida enfatico il titolo, il tutto trascinato da ritmiche incalzanti e chitarre che rasentano l'heavy metal: un insieme di cose che rende il brano un qualcosa di molto vicino a quel concetto di rituale collettivo che menzionavo sopra. Sono quei momenti in cui riesci a comprendere la bellezza di un brano riuscito, ispirato e ben realizzato, che afferri la grandezza di una band e le potenzialità della musica in generale come medium dispensatore di emozioni ma anche come opera, manufatto del genio compositivo umano. Credo di aver avuto la stessa sensazione con "Halloweed Be Thy Name", perché i brani dei Fields of the Nephilim, più che dall'arrendevolezza della darkwave, sono animati dall'epicità delle cavalcate heavy metal. Grandi momenti, indubbiamente. 

L'apice è stato raggiunto, il resto è grasso che cola. I tre bis aggiungono gloria alla gloria, tutti estratti da "Downrazor": "Preacher Man", "Blue Water" e poi una fluida e dilatata riproposizione della title-track da spellarsi le mani dagli applausi. Mi avvio all'uscita tronfio di una grande soddisfazione e con l'idea, insolita, di voler rivedere lo stesso concerto - casomai McCoy e soci passassero dietro casa mia un'altra volta... 

P.s unica nota di amarezza. Vedo attorno a me i classici darkettoni di una certa età, un po' pingui, con il trucco sfatto e la capigliatura scarruffata di Robert Smith, brava gente. E penso che un giorno queste figure così caratteristiche si estingueranno. Il metallaro no, il metallaro non morirà mai, il riciclo di generazioni è continuo e si verifica attraverso modelli indissolubili, come se tramandati di padre in figlio. Questo diviene evidente quando ai concerti dei grandi classici del metal si incontrano, anzi, si confondono le diverse generazioni, distinguibili solo dalla quantità di rughe sulla pelle. Per esempio al concerto degli Anthrax vedevi ventenni agghindati alla stessa identica maniera di coloro che ascoltavano metal quando quei ventenni erano in fasce: stessi giacchetti jeans, stesse toppe e spille, stessi capelli. Nel dark è diverso. Certo, i giovani continueranno ad ascoltare il dark, ed ascolteranno anche le glorie degli anni ottanta, ma si capisce che il modo di vivere quel genere musicale è diverso oggi, che l'approccio è diverso, il look è diverso, le vibrazioni intorno a loro non sono più le stesse. Certi personaggi irrimediabilmente scompariranno. Onore a loro finché ci sono...