Di solito iniziamo l'anno con editoriali deprimenti, dando la colpa alle festività natalizie appena trascorse. Ci pare che il metal sia morto, oppure ci sembra di invecchiare e di non capire più un cazzo di metal, e cose così. Oggi torniamo a mettere in discussione il metal e dunque noi stessi.
E' accaduto durante una serata di ottobre. Ero a giro per Camden Town con un mio amico. Nonostante questo mio amico non fosse un appassionato di metal, gli ho proposto di fare un salto al Devonshire Arms (The Dev per gli amici), storico pub per metallari della zona. Quella sera, gratuitamente, avrebbero suonato tali Beyond Your Design, giovane formazione inglese dedita ad un death melodico su cui possiamo anche sorvolare.
Il Dev è un pub normalissimo, quasi più affascinante di giorno quando è buio, semivuoto, con qualche disgraziato che si beve una birra e musica brutale in filodiffusione. Le sere del weekend invece si riempie di gente e si appiattisce su dinamiche festanti che possiamo ritrovare un po’ ovunque: chi schiamazza all'esterno con una sigaretta in bocca, chi chiacchiera lungo il bancone del bar o seduto ai pochi tavoli, chi infine se ne sta davanti al minuto palco a sovrastare i musicisti stessi. La fauna presente si offre alle più svariate riflessioni sociologiche ed io, in piedi con una birra in mano, mi diverto ad osservare il brulicare rumoroso di queste "entità metalliche" in un gioco di immedesimazione che mi vede osservare questo spettacolo attraverso gli occhi perplessi del mio amico.
Ovvio che agli occhi di un non-metallaro un raduno di metallari appaia come un ricettacolo di gente disagiata. Consideriamo inoltre che è sabato sera e che è tutto amplificato: i metallari “full time”, ben distinguibili per i tratti somatici appesantiti da una militanza metal pluriennale e giornaliera, si mescolano alle facce più fresche dei “trasgressori del sabato sera" (quelli che “sì dai, stasera mettiamo su il trucco pesante, vestiti succinti ed andiamo a “rockeggiare”!).
A questi si aggiunge un discreto numero di figuri che hanno evidenti problemi. Grossi problemi, forse mentali, sicuramente relazionali. Quelli che hanno una età anagrafica avanzata danno lo spettacolo peggiore (corpi deteriorati da un lungo e lento logorio, corone dentarie dalle mille sorprese, tatuaggi in posti inimmaginabili, occhi vacui persi nel vuoto). Ma anche certi giovani si difendono bene: fra questi riconosco un tizio che incontro di solito durante il tragitto quando vado a prendere mio figlio all’asilo, uno di quei sociopatici con folte basette che sembrano vivere in una dimensione parallela, che vedono e sentono cose che gli altri non vedono e non sentono (non pensavo nemmeno fosse un metallaro, a dirla tutta, mi pareva piuttosto uno di quelli che indossano magliette di band metal solo perché qualche associazione di volontariato gliene ha fornita una di seconda mano).
Pochissime sono le persone che interagiscono con espressioni facciali che manifestano con naturalezza e nonchalance i sentimenti più comuni del sabato sera, sentimenti come sorpresa, divertimento, scherno ecc. Tolte queste "umane" eccezioni, il resto si compone di persone su di giri, chi perché ubriaco, chi perché “c’è da fare casino”, oppure gente congelata in una coltre di solitudine, dallo sguardo dimesso, che anche stasera - per l’ennesima sera - sperano di poter trovare un amico o un’anima gemella, paralizzati dalla timidezza o da chissà quali altri schemi mentali irrisolvibili. Costoro non guardano nessuno, oppure fissano insistentemente certi soggetti o dettagli dell'ambiente, e quando alzano la testa scorgi lo sguardo del disagiato.
Conosco molto bene la fauna metallara, quindi non mi sorprendo più innanzi a certe facce e a certe scene. Sogghigno dentro di me, ma mi viene anche un sospetto: il sospetto che vi sia un grande fraintendimento.
Un fraintendimento che sta dietro al perché si ascolta metal.
Perché lo si fa? Per quanto mi riguarda sono più di trent'anni che ascolto metal e l’ho sempre fatto perché il metal mi piace e lo ritengo un genere con le sue apprezzabili qualità. A mio avviso il metal, oltre la sua "scorza dura", sa essere una musica realmente raffinata, complessa, e ritengo che apprezzare veramente il metal significhi riconoscere la genialità dei suoi musicisti, coglierne le invenzioni, gustare i passaggi meno banali, i risvolti concettuali quando ci sono. Parlo della musica, ovviamente. E finché sei in casa tua ti sembra di essere quasi un musicologo nel sentirti in grado di padroneggiare un ascolto così esigente, ricco di tecnicismi, sfumature, guizzi di genio ed arrangiamenti elaborati. Poi esci di casa e ti ritrovi fra un branco di disadattati (o così parrebbe almeno all'apparenza). E ti chiedi: possibile che io e loro condividiamo la stessa passione? Che loro ed io sentiamo le stesse cose?
Discrepanza e stridore che non percepisco, per esempio, quando vado a teatro, quando sono ad una mostra in un museo, in un cinema d'essai o ad un concerto non-metal, dove tutto mi pare invece allineato al mio modo di essere, interiore ed esteriore. Premesso che ognuno può fare il cazzo che gli pare, mi vien da pensare che il metal attragga persone che, per vari motivi, hanno voglia o bisogno di “appartenere a qualcosa”. I giovani, si sa, perché magari vivono una fase di trasgressione; i meno giovani, invece, vi rimangono irretiti per un senso di appartenenza ad una comunità che sembra finalmente accettarli: il metal, dunque, come un rifugio.
Mi vengono allora in mente le parole che ha utilizzato Franco Sesa, batterista dell'ultima formazione dei Celtic Frost, in occasione della presentazione del suo nuovo progetto Oath of Cranes: “Per la mia generazione, i metallari degli anni Ottanta, il metal era molto più che semplice intrattenimento. Si trattava di sopravvivenza e non solo un po’ di divertimento che ravvivasse la vita quotidiana. Era famiglia, religione, identificazione. Penso che all’epoca abbia impedito a molte persone di suicidarsi e che abbia avuto un vero e proprio effetto di guarigione su gran parte della mia generazione. Penso anche che questo sia vero anche ai giorni nostri. È più che musica. È uno stile di vita. Con questo progetto voglio mostrare la mia gratitudine a questo genere musicale e ringraziare tutti coloro che hanno contribuito a creare e mantenere viva la tradizione anche se è stata sempre rifiutata dalle masse, ridicolizzata e considerata musica per diversi. Siamo outsider e ne siamo orgogliosi. Non per scelta, ma per necessità.”
E’ il termine “necessità” che mi inquieta, come se la condizione del metallaro non fosse una scelta in base ai propri gusti personali bensì una condizione esistenziale in cui i reietti, i non-allineati (qui si utilizza il più neutro termine “outsider”) trovano accoglienza. Cioè: ho quindici anni, nessuno mi considera, per molti sono "strano", ma nel metal finalmente trovo una famiglia e qualcosa in cui credere. Ne ho venti e lo ascolto perché...Ne ho trenta e non lo ascolto più, oppure lo ascolto ancora perché...Ne ho quaranta, cinquanta e continuo ad ascoltarlo perché...
Non so, un po’ mi rende perplesso questa fede nel metal come un qualcosa di magico che ha salvato tutti noi dalla depressione e dal suicidio. E che ci ha fornito una identità. Non è sano pensarla così, almeno quando hai più di trenta anni. Come quelli che stanno insieme a qualcuno perché hanno paura di stare da soli e finiscono per innamorarsi di persone che in realtà non amano per le loro qualità, ma di cui hanno bisogno da un punto di vista psicologico ed emotivo. Mi chiedo dunque: e se poi uno fa una terapia (va dallo psicoterapeuta, dallo psichiatra, dal santone guaritore, scava nell'inconscio, scioglie nodi o prende psicofarmaci ecc.) cosa succede? Si rende conto di non aver più bisogno del metal e smette di ascoltarlo? Una volta guariti dalla solitudine e definito un equilibrio, una identità (grazie ad un/a partner, per esempio, ad una famiglia, un lavoro gratificante o una cerchia di amicizie soddisfacente), guarderemo forse il "nostro antico alleato”, il metal, con tanto affetto e riconoscenza, ma dall’alto in basso?
Nel bene o nel male temo che per molti abbia valso questa logica, e mi riferisco sia a quelli che abbiamo perso per la strada (ossia tutti coloro che, raggiunta una certa età, hanno smesso di ascoltare metal) che a quelli che ci sono ancora perché la vita non gli ha offerto quell'appagamento che cercavano in altre sfere. Non fraintendetemi, vi indico una sensazione, un ragionamento, non fermatevi al dito.
Una obiezione a queste mie considerazioni potrebbe essere la seguente: è in atto un capovolgimento, signore e signori! Il metal, in realtà, non attira i casi umani, semmai è talmente intimo il rapporto che si ha con il metal quando ad esso ci si appassiona che diviene naturale considerarlo più di una forma di intrattenimento e trasformarlo in uno stile di vita. Ma se così fosse, allora vuol dire che l'uomo nasce bello e che il metal lo imbruttisce, se il risultato di questo stile di vita è lo spettacolo miserabile che mi si para innanzi agli occhi stasera o in occasione di tutti i concerti o raduni metal. E francamente questa mi sembra anche una cosa peggiore di quella che sostenevo sopr'anzi.
Chissà, forse è un mix delle due cose, ma voglio sperare che là fuori ci siano tanti altri che, come me, siano dei metallari invisibili, che vivono il metal come una condizione interiore, senza tanti orpelli esistenziali, senza ostentarlo, che semplicemente lo apprezzano come possiamo apprezzare la pizza, indiscutibilmente buona (e senza bisogno di indossare magliette con sopra scritto "I Love Pizza"). Significherebbe che il metal ha un senso come forma d’arte e che esso non costituisce un "porto di trasgressione" in una fase specifica della vita o un’ancora di salvezza per persone con problemi di socializzazione o di identità.
Tornando a casa, tuttavia, è inevitabile che un filo di inquietudine attraversi i miei pensieri e che mi chieda nuovamente.... perché ascolto metal?
And you?