Ventitreesima puntata: Anti – “The Insignificance of Life” (2006)
Gli Anti esordiscono con misura e giustezza, il loro golden debut "The Insignificance of Life" (si parte bene...) non arriva alla mezz'ora e conta solo sei brani (di cui una cover). Un "piccolo" lavoro, questo, che tuttavia ha molto da dire. E lo dice, coerentemente, con uno stile asciutto, tonico, compatto, melodicamente ispirato.
Torniamo dunque in Germania per conoscere un altro bel capitolo del depressive black metal, trovando in esso la conferma di come le brumose lande teutoniche siano un teatro di prim’ordine per quanto riguarda l’espressione di questo sotto-genere.
Mi hanno sempre incuriosito quei polistrumentisti che da soli sono in grado di allestire un suono completo e rifinito, capaci di concepire, scrivere, suonare, arrangiare e a volte produrre un album intero, ma che poi, per uno strano senso del pudore, cedono il microfono ad altri, quasi vergognosi di passare dal ruolo di registi a quello di attori. Io per esempio avrei più difficoltà a suonare chitarra, basso, tastiere, programmare la drum-machine e mettere tutto insieme che cantare in un disco black. E non è che il buon Krieg sia un Freddie Mercury, intendiamoci, ma essendoci molte formazioni a due di questo tipo, evidentemente scattano nel DBM delle dinamiche di cui ignoro il meccanismo.
Chiusa questa inutile parentesi, possiamo procedere con la descrizione del tomo in questione. L’essenziale, in verità, si è già detto nelle prime righe di questo post, perché se vogliamo (e dobbiamo) dare un’idea del tratto distintivo degli Anti, possiamo limitarci a dire che essi appartengono alla branca meno sfrangiata e dispersiva del DBM: in “The Insignificance of Life” non troveremo lunghi brani, assenze, un’eccessiva ripetizione dei moduli espressivi. Tutto, come si diceva, è calibrato per stare in tracce di durata contenuta, cosa che per certi aspetti può conferire ulteriore inquietudine alla proposta in quanto i toni duri, anche selvaggi, di questo black metal vengono frenati, compressi, avviliti dal senso di frustrazione che trapela dagli umori.
La musica degli Anti è antitetica, se mi passate il gioco di parole e la banalità del concetto: tutto negli Anti sembra emanare un senso di opposizione all'esistente: dal prendere le distanze dal mondo circostante al rifiuto della vita stessa, ritenuta come una cosa futile prima ancora che dolorosa. In altre parole: dalla musica degli Anti sgorga più sdegno che sofferenza.
E' come se la band procedesse per certezze, sicura di quel che vuole fare e di quel che vuole esprimere: non ha un atteggiamento meditabondo, non vaga senza meta lamentandosi ed anelando la morte. No, rispetto a quegli slanci che si hanno in genere nel DBM, tipo “non sopporto più questa vita di merda” e il consequenziale “ma tanto stanotte mi ammazzo!” (slanci che richiedono almeno la forza e la determinazione di compiere il gesto fatale - cosa non da poco), i testi degli Anti (spartiti fra i due componenti) comunicano solo rassegnazione. Un rassegnazione a denti stretti, dalle mascelle doloranti. La vita viene mal sopportata con impazienza e si confida che prima o poi finisca. Almeno questo è quello che si evince da testi come quello di “Landscape in Minor”:
“As long as silence fills this woe
As long as sorrow fills this life
As long as darkness fills my thoughts
As long as blackness fills my senses
I will not longer exist
I will not longer see this
As long as life needs tears
As long as tears nourish grounds
As long as memories evokes pain
As long as screams comes with longing
I will not remember
I will not live this life”
Da questi versi si capirà anche che non si esce dal carattere didascalico che hanno molti testi in ambito depressive, ma valeva la pena sottolineare questa sfumatura, che è comunque una variante rispetto alla media. Fortunatamente, come in molti altri casi, è la musica a darci buone ragioni per farsi ascoltare.
“The Insignificance of Life” non è un album evanescente, fumoso, inconsistente, è bensì quadrato, spigoloso, massiccio: figlio del pragmatismo tipico dell'approccio tedesco. Pregiato è il lavoro delle sei corde intorno alle quali tutto ruota: riff ossessivi e decadenti vanno a celebrare l’eterno ritorno burzumiano, un'apocalisse sonora in cui il ronzio irrequieto delle chitarre è un moto perpetuo che sale, scende, genera tensione. Un elemento che spicca è l’utilizzo anomalo (per un disco di DBM) della doppia-cassa: velocissima, pressoché persistente. Sebbene i tempi siano per lo più fra il medio e l’adagio, i brani incarnano un carattere aggressivo e minaccioso dato proprio dalla doppia-cassa ed ovviamente avvalorato dalle rasoiate delle chitarre e il fare scontroso di Krieg, le cui ganasce secernono odio e disprezzo per tutta la durata del platter.
Il cantante si offre al suo pubblico bello "megafonato", voglio dire, la sua voce è effettata, frastagliata, perfettamente in grado di coordinarsi con gli scenari messi in musica: il suo è un digrignare di denti e del DBM restituisce la dimensione più "casalinga", voglio dire quella di chi trascorre le sue giornate al chiuso delle quattro mura della propria cameretta consumandosi nel livore nei confronti dell’umanità: aspetto in un certo senso suggerito dalla copertina, che ci introduce all’interno di una stanza, non si capisce bene se di un appartamento civile o di una cella in una prigione (ambiguità probabilmente voluta per ribadire il concetto di vita = prigionia).
L’apertura affidata a “Nothing” (manifesto della contrapposizione fra “Io ed altri”) è micidiale: dopo una breve intro, l'opener annichilisce con un up-tempo che non ritroveremo nel resto dell’opera. L’arpeggio iniziale di “Landscape in Minor” mostra il lato più riflessivo della musica degli Anti, ma senza stravolgere le carte in tavola. Idem per le successive “Invocation” (con testo tratto dal "Necronomicon") e “Farewell (Escape into Beyond)” che tagliando il traguardo dei sei minuti vincono la palma di brani più lunghi. Se non corrono, gli Anti si affidano a tellurici mid-tempo: un flusso sonoro che procede senza strappi, salvo lo schiudersi improvviso di brevi interludi acustici. I soliloqui di Krieg (che più che cantare decanta) vi si spalmano sopra privi di impeto, lasciando alle chitarre il compito di apportare le variazioni del caso.
I tre minuti e mezzo di “Zero Point” smorzano ulteriormente i toni e vanno a rappresentare il momento più pacato dell’album: un impasto elettro-acustico con il lamento di Krieg che si spegne quasi in un rantolo impalpabile. Il tutto si conclude con il tributo ad una realtà controversa e di culto del black metal tedesco, ossia gli Absurd, coverizzati con il brano “Mourning Soul” (da “Facta Loquuntur” del 1996), il quale, nonostante i miasmi della vecchia scuola, risente del “trattamento Anti”, allineandosi agli umori del resto dell'album.
I 29 minuti di durata di “The Insignificance of Life” non ne fanno il “Reign of Blood” del depressive, sia chiaro, ma certo esso rappresenta un lavoro che ogni appassionato del genere deve ascoltare...