Non
è mai esistita una vera rivalità fra Opeth e Katatonia,
sebbene le premesse vi siano state tutte, fin dal principio: forgiati nella
medesima fucina (lo studio di registrazione di Dan Swano), germogliati e
cresciuti nello stesso retroterra culturale (la Svezia degli anni novanta),
evoluti verso sonorità sempre più ricercate che hanno condotto alla
emancipazione dal metal estremo (materia peraltro maneggiata con grande
originalità fin dagli inizi), i due gruppi condividono più di un tratto in
comune.
Tuttavia,
nonostante le analogie stilistiche e i vari punti di contatto (ricordiamo che Akerfeldt
cantò su "Brave Murder Day"), Opeth e Katatonia hanno
imboccato da un certo punto in poi strade sostanzialmente diverse, operando
scelte che hanno previsto differenti percorsi di personalizzazione ed esiti
artistici a tratti molto diversi che solo negli ultimi tempi hanno visto
convergere nuovamente le proprie coordinate: da un lato l'ammorbidimento
definitivo degli Opeth verso un prog dagli spiccati sapori vintage
e dall'altro il metal-prog moderno dei Katatonia che hanno deciso di imprimere
una nuova complessità al loro rock/metal dalle forti tinte dark. Ma non
è nostra volontà ripercorrere storie arcinote. La domanda semmai è: dopo una
storia più che ventennale, ora che entrambe le band vantano uno status di
prim'ordine nel metal odierno, quale delle due si può definire oggi più in
forma?
Partiamo
dagli Opeth: non sono di certo uno che ha esultato innanzi alla svolta
intrapresa con "Heritage". A rendermi perplesso non è tanto la
scelta stilistica in sé, visto che sono amante del prog ed in particolare di
quello settantiano, bensì il fatto che la band con questa mossa ha finito per snaturare
la propria personalità per appiattirsi su una proposta eccessivamente derivativa,
citazionista e tributaria dei classici degli anni settanta. Eppure con "Sorceress",
uscito nel 2016, siamo già a tre album con queste caratteristiche e la
band mostra una certa convinzione nel portare avanti le proprie scelte. No
tentennamenti, no ripensamenti, no parziali passi indietro come molti altri:
Akerfeldt sarà anche testardo come un caprone, ma almeno è coerente e forse
forse, mi tocca ammetterlo, alla fine ha ragione lui.
Punto
primo: un artista deve fare quello che si sente di fare, e il fatto che Akarfeldt
continui imperterrito per la propria strada, nonostante piovano critiche da
ogni dove, ci conferma che la condotta del Nostro sia mossa da forti
convinzioni. Meglio dunque degli Opeth che fiaccamente portano avanti le loro
sonorità storiche rischiando di apparire come il triste fantasma del loro
passato, o meglio degli Opeth che, sempre fiacchi (perché gli anni d'oro sono
veramente alle spalle), salvano il salvabile, sacrificando quello che più non
gli appartiene e cercando di fare il meglio che possono in un formato a loro
oggi più congeniale? A questo punto dobbiamo ammettere che l'opzione più
desiderabile è la seconda, ossia quella di lavori come "Heritage",
"Pale Communion" e "Sorceress".
Sarà
perché ci siamo abituati, se non addirittura rassegnati, fatto sta che
quest'ultimo capitolo discografico degli Opeth, superati i soliti preconcetti,
non ci è dispiaciuto affatto. Ma attenzione, il merito non è di Akerfledt, la
cui stanchezza compositiva si fa sentire al pari delle prove precedenti, bensì
di una formazione che ha avuto modo nel corso degli anni di rodarsi e
compattarsi, finendo per superare, quanto a freschezza ed inventiva, il vetusto
deus ex machina: in particolare Martin Axenrot dietro alle pelli
continua a crescere in modo impressionante, compiendo cose prodigiose ed
offrendo una prestazione degna dei migliori batteristi prog. E così ogni volta
che Akerfeldt apre bocca (bella voce, perlamordiddio...) è noia; ogni
volta che parte un riff la sensazione di già sentito ci assale alla
giugulare; ogni volta che spunta fuori un flauto, vengono in mente i Jethro
Tull, non si scappa. Ma come ensemble gli Opeth convincono, il sound
è ben levigato e, cosa più importante, ci imbattiamo in due o tre momenti
sensazionali che è ancora lecito aspettarsi da un album degli Opeth.
Guardiamolo
da lontano, dall'alto, con il binocolo, questo "Sorceress": apparirà
come una pozza variopinta dove viola, arancio, verde e rosso si mescolano
placidamente, senza particolari tensioni. Ma almeno tre edifici imponenti
affioreranno: l'hard-rock robustissimo di "Chrysalis" (in cui
sembra quasi che i vecchi Opeth duellino con i Deep Purple!), le suadenti
movenze etniche di "The Seventh Sojourn" e le contorsioni
progressive, dalle pieghe inaspettate, di "Strange Brew",
brano imprevedibile che resuscita il reale spirito progressivo dei "padri
fondatori".
In
conclusione: se gli Opeth volevano dare un tocco di stregonesco al loro rock
progressivo, hanno fallito, perché la loro musica non ha niente di magico o di particolarmente
oscuro, per lo meno non porta con sé quel fascino perverso ed a tratti
esoterico di certe manifestazioni dark-prog a cui certamente si ispirano. Però
c'è da dire che questa sorta di “Breviario del rock degli anni settanta”
funziona, in quanto i Nostri sono in grado di compiere un'ottima sintesi
fra potenza e ricerca. Gli Opeth perdono ovviamente il confronto con i grandi
classici, però intelligentemente riescono a superarli, sfruttando l'ampio range
espressivo abbracciato e dunque battendoli, di volta in volta, nei loro ambiti
di non competenza: più contorti e versatili di Black Sabbath, Rainbow
e Deep Purple, più duri e pesanti di King Crimson, Camel e
Van der Graaf Generator, i Nostri alla fine si salvano in corner,
con brani ben strutturati che, rispetto al passato, hanno il pregio di non
risultare dispersivi e di saper sfruttare al meglio le poche idee a
disposizione.
Per
certi aspetti, i Katatonia compiono un'operazione che si pone agli antipodi,
con risultati che, come nel caso degli Opeth, ci esaltano e ci lasciano
perplessi al tempo stesso. Alla fine anch'essi, con il loro ultimo album "The
Fall of Hearts", sempre del 2016, completano una specie di trilogia
che si era aperta con "Night is the New Day" e poi proseguita
con "Dead End Kings", la cui appendice acustica "Dethroned
& Uncrowned" non aveva fatto altro che confermare il nuovo
sentiero intrapreso, l'ennesimo, dalla band scandinava. Dopo un periodo di
assestamento con album melodici che si lasciavano alle spalle le asperità doom/black
degli esordi, ed un paio di album di rottura come "Viva Emptiness"
and "The Great Cold Distance" che inasprivano nuovamente il sound
e lo macchiavano di spigolosa modernità, ecco che con queste ultime tre opere
gli svedesi si aprono a sonorità ariose e progressive, che certo non rinnegano
i passi evolutivi compiuti nel recente passato.
Si,
da quando Renkse ha deciso di deporre le bacchette e concentrarsi sul
canto, la musica dei Katatonia ci ha guadagnato in dinamismo, però in pochi si
sarebbero aspettati questa svolta "opethiana", da loro che con
due riff per canzone ed un quattro quarti ci avevano fatto commuovere. È
stata forse l'importanza degli Opeth nel metal degli anni zero ad attirare i
Nostri in quella direzione, sebbene essi avessero negli anni precedenti scelto
di imboccare strade ancora più coraggiose dei loro "rivali".
Il
bello di questa contesa è che si è trattato di un continuo sorpassarsi come
succede nelle gare più avvincenti: i Katatonia sono partiti in pole position,
mostrando una maturità precoce, mentre gli Opeth riscaldavano ancora i motori.
Sempre i Katatonia sfoderarono per primi il coraggio per abbandonare il metal
estremo, ma mentre essi rischiavano e pure sbagliavano, i più cauti Opeth si
perfezionavano, entrando nella loro fase d'oro e divenendo uno degli astri più
brillanti del metal recente. Si compì dunque il sorpasso, mentre i Katatonia,
di certo sempre rispettati e seguiti, ma come fenomeno meno influente,
continuavano a mutar pelle, finendo però per subire il fascino dei popolari
cugini. E mentre Nystrom e Renkse prendevano le misure con
partiture più complesse, Akerfeldt smarriva la bacchetta magica.
Ecco
dunque che nel 2016 le due entità tornano ad incontrarsi: gli Opeth in fase
calante, i Katatonia in lenta risalita, raccogliendo i frutti di una carriera
sempre onesta e coraggiosa. Oggi Wikipedia li definisce "progressive
rock", ma non sono progressivi come gli Opeth, che guardano quasi
esclusivamente agli anni settanta, bensì avviandosi lungo la via del neo-progressive
tracciata da Tool e Porcupine Tree/Steven Wilson: un prog che
fugge i barocchismi e le atmosfere bucoliche e fiabesche per farsi intimo,
gelido, cerebrale. Ed ovviamente oscuro, dark, ossessivo.
Guardiamo
con il binocolo, dall'alto, da lontano, anche questo "The Fall of
Hearts": ci apparirà una pozza grigia con la superficie increspata, dove
varie correnti muovono continuamente masse di liquido verso le più disparate
direzioni. Ma in questo brulichio non sembra accadere niente che si imponga sul
resto. Tradotta questa immagine in musica, possiamo sostenere che oggi i Nostri
si gettano in una cura certosina degli arrangiamenti, stratificano il suono,
disseminano dettagli e preziosismi un po' ovunque, ma a conti fatti finiscono
per suonare piatti e monodimensionali: tutto succede in ogni singolo minuto, e
dove non c'è un arpeggio, vi sono tastiere e pianoforte; le chitarre graffiano
ed accarezzano, si fanno morbide o più ruvide, senza soluzione di continuità, e
sotto di loro il nuovo ingresso Daniel Moilanen rovescia contro-tempi, smitraglia
con la doppia-cassa, colpisce energicamente i piatti per conferire sempre nuovi
accenti. Renkse, da parte sua, ha una voce bellissima e il suo giocare sulle
sfumature si fa più attento che mai; potremmo quasi definirlo (a voler dire una
cazzata a tutti i costi) un Peter Gabriel che fa i conti con
la proprio depressione. Eppure, in tutto questo affannarsi, il vocalist
finisce per risultare sempre uguale a se stesso, incapace di inventarsi
qualcosa di minimamente memorabile.
Uno stacanovismo,
quello della band, alla fine inutile se si pensa che i momenti più convincenti
si hanno quando i brani si fanno più lineari e privilegiano l'impatto, come la
travolgente dark-song "Serein" (animata da sublimi
intrecci di chitarre e tastiere, come succedeva ai bei vecchi tempi), la
ballata "Decima" (adornata di intriganti tinte settantiane) e la
più articolata "The Nightsubcriber" (a volte basta ripetere la
stessa frase più volte, sul passaggio giusto, per emozionare). Con gli ascolti
l'album cresce, ma bisogna avere tempo e non tutti ce l'hanno, io almeno non ce
l'ho. Mi ricordo quando passavo le ore ad analizzare dischi di questo tipo,
però poi negli anni tutto questo inseguimento di particolari non mi ha lasciato
molto, mentre mi sono rimasti nel cuore coloro che hanno saputo fare un discorso
più incisivo con poche idee ma buone.
Per
questo ben venga l’operazione di sintesi compiuta dall'antipatico Akerfeldt,
che non è certo il genio che lui si pensa, ma che almeno in “Sorceress” si è
reso in qualche momento memorabile, pur galleggiando il resto del tempo sulla
sufficienza. Di contro il lavoro dei Katatonia si presenta mediamente più
tonico ed umile, meno auto-indulgente ed auto-celebrativo: uno sforzo che va
apprezzato a prescindere, nonostante non si raggiungano mai picchi degni di
nota. Per questa ragione alla fine vince il buonismo e facciamo finire con un
pareggio la partita. Con la speranza, forse disperata, che gli Opeth, oramai
rodati e stanchi di fare citazioni, compiano il vero salto di qualità in questa
loro nuova fase artistica. E che gli infaticabili Katatonia ci stupiscano
ancora una volta con un nuovo e formidabile cambio di rotta!