Ebbene, si, lo ammetto: mi sono
commosso e qualche lacrima mi ha rigato le guance. Non so da quanto tempo,
negli ultimi dieci anni, non mi capitava ascoltando metal. Forse, andando a
naso, giusto con i favolosi Cult of Luna.
Però il regalo che ha fatto Arjen
nel 2016 a tutti noi, fan degli Ayreon, è qualcosa che smuoverebbe anche le
pietre: il primo live della storia degli Ayreon. E per questo evento unico
Lucassen cosa tira fuori? La trasposizione teatrale di “The Human Equation”! Già
di per sé THE tocca le corde più profonde del mio Io ogni qualvolta lo ascolti.
In più vederlo rappresentato a teatro…
Insomma, l’operazione tentata dal
menestrello di Hilversum non solo non era delle più semplici, ma rischiava di
rendere pacchiana una delle sue opere più profonde e in definitiva meglio
riuscite (per chi scrive, la migliore) della sua intera carriera.
Comprensibilmente, per
quest’opera titanica, Arjen decide di giocare in casa, a Rotterdam. Ma come
prima cosa compie una scelta non banale, intelligente e sobria: si toglie di
mezzo! Via la sua ingombrante figura dalla scena, nessuno strumento in mano e
nessuna parte nell’opera. Spazio agli altri protagonisti, ai cantanti e
musicisti che già avevano suonato e cantato undici anni prima su disco (lo show
ripreso è del settembre 2015), con qualche piccola, obbligata variazione: al suo posto come Best Friend,
Arjen sceglie l’ottimo session Jermain van der Bogt; mentre a sostituire il mai
troppo compianto Mike Baker, storico frontman degli Shadow Gallery che nel 2004
aveva impersonificato Father, troviamo un altro guest/session, l’australiano
Mike Mills, che interpreta anche Rage (al posto di Mikael Akerfeldt
nell’originale).
Insomma, sostituzioni lievi ma importanti in ruoli chiave
nella sceneggiatura del dramma.
Poco male comunque perché gli
altri ci sono tutti: da Magnus Ekwall (Pride) a Devon Graves (Agony) fino
all’istrionico Eric Clayton nel ruolo-chiave di Reason. Nota di colore: Clayton,
alla soglia dei 50 anni e al netto della non poca differenza d'età, è diventato fisicamente uguale a Rob Halford, barba
compresa!
Da sottolineare come vedere, oltre
che ascoltare, le interpreti femminili fa un effetto davvero notevole: Irene
Jansen è una splendida (e fisicamente mastodontica) Passion, mentre l’inglese Heather
Findlay è una sensualissima Love.
E poi ci sono loro, le divine:
Anneke van Giesbergen/Fear (siiii, voglio avere tanta paura!!), e l’unica
cantante che le può tenere testa in ambito metal: Marcela Bovio/Wife. Difficile
esprimere tutta la gamma di emozioni che queste due ugole inarrivabili possono
trasmettere. E quindi non mi ci provo neppure. Tanto le conoscete e se non le
conoscete non starete neppure leggendo questo post in quanto non-fan degli
Ayreon…
E infine eccoci arrivati a lui, a
Me, al protagonista. A James LaBrie. Come lo giudichiamo il buon James? Ebbene,
prestazione più che positiva: sofferta, sentita, vera. Professionale. Non
dev’essere semplice per uno abituato da trent’anni a concentrarsi sul canto e
basta, a dover andare in giro su un palco, sempre sotto la luce dei riflettori, con addosso
l’attenzione di tutti, spettatori e colleghi. Se la cava; non è
Pacino, ma se la cava. Così come fece sul disco nel 2004, anche sul palco nel
2015 James sa stare sotto le righe, puntare tutto sulla sostanza interpretativa
e oggi come allora il risultato è validissimo.
Lo seguiamo dall’inizio, dentro
la macchina dell’incidente, nel suo subconscio. Il suo corpo “reale” è sul
letto d’ospedale poco sopra, vegliato nella disperazione di Best Friend e Wife,
mentre lui comincerà il suo personale “viaggio di formazione” lungo 20 days,
che lo porterà dalla disperazione dell’”Isolation” fino alla chiave per
risolvere la sua vita tormentata in “Confrontation”. In mezzo dovrà soffrire,
confrontarsi con i suoi demoni interiori, sentire le voci a volte melliflue, a
volte prepotenti, della Paura, dell’Orgoglio della Passione, della Ragione e
della Rabbia che utilizzeranno l’inconscio di Me come un campo di guerra.
Nessuno spoiler per il finale; basti ricordare che Me dovrà arrivare ad una
sintesi di tutte le “Voci” che gli affollano la testa, ripercorrendo tutti
i tragici avvenimenti della sua vita (dall’infanzia e il conflittuale rapporto
col padre fino al giorno dello pseudo-incidente che lo porterà al coma),
passando tra mille ricordi sepolti nel proprio io e dovrà fare delle scelte che
non saranno mai indolori.
Uno strapuntino finale anche per
Lucassen, il mastermind che sta dietro a tutto. Il Forever of the Stars che ha
architettato questa macchinazione che ci è passata davanti agli occhi per quasi
due ore (volate peraltro) e che, meritatamente, viene a prendersi gli applausi
prima che il sipario cali per l’ennesima perla (un must per tutti i suoi fan) inanellata in 35 anni di vita
musicale.
I can’t move / I can’t feel my
body / I can’t remember anything…e il viaggio (ri)comincia...
A cura di Morningrise
A cura di Morningrise