I Dark Angel stavano sul cazzo a Chuck Schuldiner. Qui si potrebbe anche chiudere il discorso, ma sarebbe un errore. Primo, perché simpatie e antipatie non sono la nostra materia. Secondo, perché alla fine Schuldiner scelse Gene Hoglan per battere i tamburi. Pare che l'antipatia fosse legata allo stile di vita dei Dark Angel, non approvato da Chuck, che riteneva da microcefali passar la vita a violare le leggi e a fare i gradassi nelle bande di “motociclisti fuorilegge” (così riporta Wikipedia).
In realtà, l'aspetto
irritante dei D.A. potrebbe essere prettamente musicale, e
coincide con il loro
pregio. Sono quel che si dice una macchina da
guerra, partono col paraocchi e avanti tutta! Ma, a differenza di un
cavallo da corsa, che dà tutto in una breve ma intensa prestazione,
questi durano per minuti, cambiando riff ma non tempo. Serrati, in
una parola. Niente affatto plastici, contratti in una
posa forzata che mantengono dall'inizio alla fine.
Somigliano a quelle
persone che ti iniziano a raccontare dei fatti loro, e tu sei lì,
ben disposto e anche incuriosito, poi però ad un certo punto
vorresti piazzare lì un commento, chiedere qualcosa, un minimo di
dialogo. Invece no, il vostro amico tira diritto, non vi fa inserire,
vi ruba il tempo, procede a mulinello con i suoi racconti fino a
stremarvi. In più tiene anche lo sguardo basso e non è minimamente
interessato a sapere che reazioni sta suscitando in voi. Come parlare con un pipistrello, cieco e sordo. O come un treno merci: quando lo vedi passare non c'è uno scambio, anche solo virtuale, con i passeggeri che ci stanno sopra, qualche sagoma da salutare o a cui fare il dito medio, nulla: un freddo susseguirsi di cassoni d'acciaio.
Questo è lo stile vocale
dei Dark Angel: sembra che stiano recitando a tutta velocità
un giuramento prima di testimoniare, una formula di rito infinita,
tutta d'un fiato. Per questo a metà del secondo brano di un
qualsiasi album ti fanno incazzare.
Si salvano sotto vari
aspetti. Primo fra tutti un buon muro di chitarre. Dicesi muro di
chitarre quella struttura eretta in forma di riff da una coppia di
chitarre, quindi di un certo spessore, che procede come struttura
portante, e quindi non segue spesso l'articolazione della voce, della
batteria o del basso, ma continua a macinare monotona e minacciosa.
Il bello dei muri è che ti danno l'idea di un automatismo brutale
con cui non puoi dialogare, uno schiacciasassi, una coppia di cani
ringhiosi che potrebbero mangiarsi anche il cantante, se provi a
tirargli il guinzaglio.
La scarsa propensione
delle linee vocali e del muro chitarristico al dialogo con
l'ascoltatore si confortano a vicenda: l'ascoltatore stesso, è
letteralmente preso in ostaggio fino alla fine del disco. Non si va
al gabinetto durante l'ascolto di un disco dei Dark Angel. Non si può
ascoltare i singoli pezzi, non si può premere pausa. Manderebbe a
puttane l'intera opera.
A dirla tutta, a tratti i
Dark mi fanno pensare a come doveva essere la narrazione dei
vecchi poemi epici, o la Divina Commedia in versione accelerata. La
prima parte del verso ciancicata per poi cantilenare di più
sulle vocali nelle ultime sillabe, con cadenza sempre uguale, come
anche fanno gli stornellatori. Sul piano lirico, i temi scelti dai
Dark calzano a pennello con questo approccio serrato e
claustrofobico. Se fossero un genere letterario, sarebbero il
verismo, quello in cui l'autore non doveva tradire un suo sentimento
o giudizio su quello che stava raccontando, e quindi il tutto
risultava asettico ed essenziale. Storie atroci raccontate come se si
stesse leggendo la schedina del totocalcio, l'elenco del telefono.
I Dark Angel hanno
regalato al metal, fondamentalmente, un dittico sul tema del trauma
da abuso sessuale, che esplora, al di là dell'impatto disturbante
dell'argomento, le dinamiche che portano le vittime degli abusi
subiti a diventare essi stessi dei mostri, senza via d'uscita.
E' una cosa vera questa,
anche se non vale per tutti. Sulla base di un pezzettino di DNA, chi
subisce violenza può prendere due strade completamente opposte. O
rimane introverso, spaventato e inibito, oppure al contrario diventa
rabbioso, impulsivo e violento, trovandosi poi a praticare egli
stesso abusi simili a quelli di cui è stato vittima. Un criminologo
Americano, tal Lonnie Athens, sosteneva invece che violenti si
diventa, al di là della genetica, per un processo di apprendimento
chiamato “violentizzazione”, che può render chiunque un mostro.
Su questo tema, se cioè è l'ambiente a rendere violenti, o il
destino è invece nei geni, c'è un'intera serie su Sky Crime and
Investigation Channel. Casi di criminali seriali su cui psicologi e
psichiatri esprimono il loro parere per capire se sono “nati per
uccidere” (il titolo della serie) oppure se ci sono diventati per
un condizionamento ricevuto. E alla fine, puntualmente, non
concludono mai una sega, su nessuno dei casi.
Il pedofilo di “Leave
scars” è un mostro che lascia cicatrici. Non gliene importa
nulla delle cicatrici, vive per rincorrere un desiderio, che è
quello di prevalere sul sesso debole, cioè il sesso che può
forzare, dominare con la minaccia. La mostruosità è prima
psicologica che fisica, perché il concetto del mostro è che la
vittima è l'unico tipo di partner che, annullando la propria
volontà, può dare amore incondizionato. Questo nichilismo sadico
esclude il consenso, la condivisione di qualsiasi tipo, perché se
l'altro vuole il rapporto sessuale, allora non è più interessante.
Ma neanche un partner a pagamento lo è, perché è anche quella una
forma di consenso. Il sadismo prevede che la persona si sottoponga,
soffrendone, all'atto, ma che annulli la sua volontà, la sua
identità. In questo il torturatore realizza la sua.
Il sadico si spinge fino
a proclamarsi “salvatore”, messia delle sue vittime, di cui
traccerà il destino patologico, come se lo stessero aspettando per
essere marchiati. In questa visione distorta, il violentatore
descrive il suo percorso spirituale, dall'iniziale angoscia per
quello che stava diventando, alla successiva totale soddisfazione per
quello che si è rivelato. Va poi oltre, sovrapponendolo a quello
della vittima, che inizialmente si ribellava, e infine si è arresa
al fascino della violenza.
Il male è seminato
quindi da vittime a carnefici. I Dark Angel sono pessimisti
circa il fatto che questa catena si interrompa, e la biologia in
effetti non dà loro torto, perché chi non diviene violento rimane
spaventato.
Nel testo sembra anche
che poi, dall'esempio della violenza sessuale, il campo si allarghi
per includere altre forme di condizionamento “vampirico”, come ad
esempio quella dell'avidità. Chi subisce l'avidità altrui diviene a
sua volta avido di superare il proprio carnefice sullo stesso piano,
in una Gomorra di prevaricazioni continue e cicliche, senza un vero
futuro. Non si tratta del più banale trittico “sangue-sesso-soldi”,
al centro di tante vicende di cronaca nera, ma di una psicologia
sociale che entra nel particolare, una società che scruta le sue
vittime e poi chiude gli occhi al momento opportuno, per scrutare
altrove, fiduciosa che le sue vittime, quelle che non soccombono,
torneranno come suoi nuovi membri cinici e violenti.
La storia finisce con una
tragica consapevolezza, forse un anello di rottura di questa catena
di Sant'Antonio della sopraffazione. Il carnefice infine perde il
senso della vita, non è più appagato, si fa spazio nella sua mente
l'atroce consapevolezza di essere di fronte alla morte, e da solo,
senza alcun Dio. Perché se nel mondo ideale Dio non rinnega mai
neanche i suoi figli più dannati, invece, in questo, Dio ha rinnegato
lui, così come lui ha rinnegato Dio. Il motto “Io lascio
cicatrici” che prima costituiva motivo di sadico orgoglio, diviene
una ferita interiore, un senso di irrimediabile stortura che rimane
nelle ferite procurate ad altri, e sopravviverà alla morte del
carnefice stesso.
Il seguito della storia,
e cioè "Time does not heal", tecnicamente ancora più evoluto,
è la storia della vittima, basata sul cosiddetto stress
post-traumatico. Si tratta di uno stato mentale conseguente ad un
evento violento o catastrofico, che anziché essere “sistemato” negli anni sempre più vicino al dimenticatoio, è una specie di
“nuovo inizio” per la persona. Il tempo che guarisce le ferite in
questo caso invece serve a costruire le fondamenta della nuova vita
“traumatica”, basata sul ricordo vivido e condizionante
dell'esperienza negative. Il cervello è ingannato, e anziché
lasciar perdere, crede di dover utilizzare il messaggio del trauma
come nuova base, e il suo contenuto come nuovo “pane” quotidiano.
La persona quindi vorrebbe uscirne attraverso, rimanendone invece
invischiata.
Sia nella musica, che nei
testi, non se ne esce: non si ha respiro, non c'è un momento di
visione esterna. Uno dei thrash più pessimistici e introversi
sulla piazza. E' un tunnel, che non vedi l'ora che finisca ma poi lo
imbocchi di nuovo.
A cura del Dottore