"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

2 mar 2017

"THE HAUNTED" - ovvero QUELLO CHE GLI SLAYER AVREBBERO POTUTO...(parte II)



Ci torno sopra. Tanto ormai mi sono sputtanato, quindi tanto vale…

Torno sugli Slayer. Perché l’amore è grande e quando l’amore è così grande le delusioni che ne derivano sono ancora più cocenti.

Per me gli Slayer sono e rimarranno quelli dal 1983 al 1991, da “Show no mercy” a “Decade of aggression”.  Ci ho provato a farmi piacere anche le altre pubblicazioni. Sono passati 23 anni e non ci sono riuscito.

Non mi emoziona nulla della loro discografia da “Divine Intervention” a “Repentless”. Per carità, niente di “vergognoso” o insufficiente. Ma di certo nulla di memorabile. Si ok, lì per lì ci basta. Ma da qui ad esaltarci e ad emozionarci il passo è, ahimè, lungo.

Lo so, gli Slayer non andrebbero neppure analizzati e/o recensiti. Vanno presi così come sono, tipo icone. Ce l’avete presente quando i nostri amati nonnini ci raccontano per l’ennesima volta quell’episodio della loro gioventù come se fosse la prima? E in realtà quella storia l’abbiamo sentita non meno di cento volte? Ecco, mica gli andiamo a dire: “Nonno, fermati: questa ce l’hai già detta!”? No, li si sta a sentire fino alla fine e poi si ride di gusto.
Ecco, la stessa cosa per gli Slayer: bisogna stare ad ascoltarli e apprezzare, anche se siamo stra-abituati alle urla di Araya, ai soliti assoli dissonanti di King suonati a mille all’ora e a tutto il resto dell’armamentario collegato al loro nome. Già sento qua in redazione il nostro Lost In Moments che mi redarguisce: “Gli Slayer si amano e basta! Non ti basta la barba di Zio Tom per godere?!?”

Si, mi potrà anche bastare ma ciò non toglie, così come fatto in occasione del post sui Grip Inc., di divertirmi a pensare a come avrebbe potuto essere l’evoluzione dell’Assassino, rimanendo nell’alveo thrash (un alveo per sua stessa natura non troppo ampio, ma neppure così angusto).

E per immaginarmela parto dal post che il nostro Mementomori scrisse su “Diabolus in Musica”, nel quale si diceva: più che nu-metal i Nostri recuperavano quella violenza deragliante che li aveva ispirati in gioventù […]. Fra tutti gli incartapecoriti della vecchia scuola thrash, gli Slayer furono lungimiranti: capirono che l’unico modo per progredire era tornare indietro, regredire alla fase hardcoreanale.

Il problema è che, secondo me, DIM non è granchè. A parte l’opener “Bitter peace” (gran pezzo) il resto si mantiene su una sufficiente omogeneità, che di certo non fa strappare i capelli. E allora? Cosa avrebbero dovuto/potuto fare al posto di quel disco? Come evolvere, anche a voler tornare alla fase hardcore? Come evitare quel rischio, cui di fatto gli Slayer sono poi incappati nel terzo millennio, di portare più o meno stancamente le loro classiche sonorità essendo l’ombra di se stessi?

Ecco, la risposta era arrivata già in quel lontano giugno del 1998. "Diabolus In Musica" esce il 09/06. Due settimane dopo, il 23 giugno, esce l’omonimo debut dei The Haunted. Ascoltandolo capisco; capisco quale poteva essere la linea evolutiva davvero azzeccata degli Slayer. Perché, al netto di lievi retaggi swedish, "The Haunted" è un album di hardcore nudo e crudo. Devastante, fresco, dinamico. Un disco che, per citare ancora il collega, è da ascoltare se si hanno 40 minuti liberi e si ha voglia di sfalloppiarsi il cervello. Del resto i The Haunted per 3/5 di line-up sono gli At the Gates (i fratelli Bjorler e quel grande batterista che risponde al nome di Adrian Erlandsson). E quindi potete immaginare che in quanto a classe e capacità tecniche e di scrittura non avevano da invidiare niente a nessuno. Se a questo background, si aggiunge il cantante Peter Dolving, già singer dell’hardcore/thrash band Mary Beats Jane, allora il piatto è pronto. E il sapore lo si può immaginare: hardcore/thrash/death dei più validi. Davvero un disco spaccaossa.

Il confronto tra i due dischi si può fare, eccome. Perché i TH, per certi fraseggi e in molto solos, si rifanno chiaramente agli Slayer. Senza essere troppo derivativi, senza scopiazzature di sorta. L’influenza è fortemente mediata da una personalità spiccata, da un’esperienza che parla da sé e da una vena compositiva talmente straripante che, appunto, non ha di certo bisogno di emulare pedissequamente qualsivoglia altra band, Slayer inclusi. E, credetemi, da tale confronto chi esce vincitore sono gli svedesi, sia nei brani più diretti e schiettamente hard-core come "Hate Song”, “Undead” o “Chock hold”; sia in quelli più articolati (le meravigliose “Chasm”, “In vein”, “Bullet hole” e  “Blood rust”). E ne escono vincitori anche per una prova strumentale di altissimo livello, così come quella di un Dolving indemoniato dietro al microfono.

E così gli Slayer, in quella seconda metà degli anni novanta, si ritrovano superati: a sinistra dal thrash moderno, "progressista" e contaminato dei Grip Inc. di “Nemesis” (1997) e “Solidify” (1999). 
E a destra dal "conservatore" thrash/hardcore dei The Haunted.

Per fortuna che gli Slayer non temono niente e nessuno, e non c’è “morsa” che li possa stritolare.

Ma poi, alla fin fine...cosa diavolo pretendo? Non mi basta il barbone di zio Tom? Che voglio di più??!?...

A cura di Morningrise