Certe volte i sogni si realizzano in ritardo, quando praticamente non sono più sogni e si sono già trasformati in qualcos'altro: un conto da risolvere con il passato, quasi una formalità.
Vent'anni fa vedere i Fates Warning dal vivo sarebbe stata
per me una gioia incommensurabile, oggi non so: mi sento di presenziare quasi
per dovere. Perlomeno è un venerdì: venerdì
2 giugno per l'esattezza.
Scenario uno:
L'idea è di presentarsi puntuali
alle 6:00pm, all'apertura delle porte, perché l'Underworld è cool ed
accogliente quanto volete, ma rimane un locale di modeste dimensioni. Potranno quelle quattro oscure pareti contenere
l’entusiasmo dei fan che accorreranno per assistere al concerto dei grandi
Fates Warning?
Altro motivo di preoccupazione
è l'acustica del locale. Conosco l'Underworld, avendoci visto una miriade di
concerti, e so che, nonostante la sua vocazione "rock" (dark, punk,
neofolk, industrial, persino metal estremo), non è un posto molto adatto per
musica tecnica e ben suonata. Un luogo dove appena si sfiora una batteria l'effetto
pentola si fa prepotente: come
potersi immaginare, in questo contesto, una band che fa della complessità
ritmica una caratteristica fondante del proprio sound?
Ma la cosa che più mi rende
perplesso è la seguente: da grande amante dei Fates Warning quale sono stato in
passato (non li seguo più da molti anni e gli album post-reunion non mi hanno entusiasmato), ho amato il loro linguaggio, i loro suoni, le loro atmosfere,
il loro mood, la loro capacità
di esprimere emozioni, ma non ho mai amato nessun loro brano in particolare.
Tanti non me li ricordo neppure (nonostante abbia ascoltato i loro album
milioni di volte) e, a dirla tutta, quei brani che i Nostri sono soliti portare
in tournée non sono neppure i miei
preferiti.
E
poi Zonder non c'è più, Mark Zonder è uscito dal gruppo:
assenza non da poco, la sua, in questa fase di resurrezione: ho sempre adorato questo batterista, ho iniziato ad apprezzare
per davvero i Fates Warning quando è entrato in formazione e ho smesso di
ascoltarli quando se ne è andato. Non lo ritengo solo un musicista unico,
dotato di una tecnica superlativa, una classe sopraffina ed uno stile
inimitabile, ma anche un elemento fondante del Fates Warning sound. Sebbene chi lo sostituirà è indubbiamente all’altezza
della situazione, per me non sarà la stessa cosa.
Tutte le aspettative finiscono
per poggiare, pertanto, su una presunta ed indefinibile quanto vaga "magia complessiva" che si presuppone
la band sappia emanare. Più ombre che
luci (per dirla à la Fates
Warning) mi accompagnano dunque verso l'evento. Ma le cose andranno
diversamente...
Scenario
due:
Ad un quarto alle 8:00pm mi
presento ubriaco fradicio all'ingresso dell'Underworld. Mi ero imposto la
sobrietà per meglio apprezzare i preziosismi dei Fates, ma una imprevista
bevuta con colleghi ha all'ultimo minuto scombinato i piani. Poco male, il
temuto sold out (risate in
sottofondo) non si è lontanamente palesato: all'ingresso non c'è nessuno, la
bigliettaia mi accoglie come se il suo posto di lavoro dipendesse dal mio
biglietto, come se da esso traesse senso la sua esistenza.
Sono molto felice, l'alcool fa
prevalere i lati positivi della faccenda, in fondo vedrò una band storica a cui
sono molto legato: sarà come una serata con vecchi amici. E laddove vi saranno
delle pecche, verranno in soccorso i ricordi. Altro buona notiozia: i Riven (gruppo spalla di cui non me ne
fregava un cazzo) hanno già suonato e i Fates attaccheranno in meno di
mezz'ora: il tempo per ambientarmi e ribadire con un'altra birra. Ma chi mi ammazza?
Il tasso di nerditudine è
alto, altissimo, sono circondato da bambolotti occhialuti con vistosi tic nervosi: me li immagino già, durante
l’esibizione, a contare le singole battute di batteria, magari emettendo versi futuristi tipo "tu-tu-tà-z-z-ta-tù". Rischio pogo
azzerato, compensato dal puzzo di ascelle, ma va bene così. Stasera mi sento
veramente simpatico, avverto la gente che ci sarà da far casino, perché
ci sono i grandi Fates Warning, mica i Dream Theater, ma nessuno ride e
qualcuno si guarda intorno preoccupato.
Con qualche (imperdonabile)
minuto di ritardo, la band si presenta sul palco e l'atmosfera è quella della sagra
della salsiccia a Portorico, con in prima fila un Ray Alder in maglietta e jeans
che sembra aver appena staccato dal turno di magazziniere. Sul secondo
chitarrista (un ragassuolo pallido
con poca ciccia e tanti brufoli) e Joey
Vera in versione ultimo dei moicani (ma perché???) preferiamo non
esprimerci. L'aspetto da pastore sardo di Jim
Matheos di sicuro non tira su l'indice di gradevolezza del quadretto, ma
devo ammettere che è perlomeno rassicurante: sarà lui (perennemente concentrato
sul suo strumento) il faro che illuminerà la serata.
Si parte soft con "From the
Rooftops" (l’opener dell’ultimo
album), ma superato l’istante di esaltazione seguito all'ingresso della band,
da quando Jarzonbeck inizia a smitragliare (Mark, ma dove sei?!?), ho già come una strana impressione, come se
mi stessi annoiando. Voglio analizzare questa sensazione e parto dalla semplice constatazione che in tutti i live-report dei Fates Warning post reunion che ho letto in questi anni,
c'è come un fil rouge che li
accomuna: un senso di incompletezza, "di-qualcosa-che-non-va"
che il recensore di turno affibbia di volta in volta ai fattori più disparati,
ma mai ai Fates Warning. Grandissimi
Fates Warning, indiscutibili Fates Warning, però perché suonano in posti così
piccoli?, perché ci va così poca gente a vederli?, e perché i suoni non sono
mai all'altezza? Ma se i suoni sono da pub, ma se ogni volta i Fates
Warning suonano in posti piccoli davanti a poca gente, forse un po' della colpa
è anche loro. Probabilmente Matheos è troppo incentrato sul proprio strumento
per battere il pugno sul tavolo ed imporre al fonico di amalgamare i suoni come
si deve. O almeno per costringere Adler ad indossare un paio di pantaloni di
pelle.
Introspettivi,
magici, indiscutibili, si diceva, e poi Matheos è fenomenale, ed
Adler, a scapito del monociglio, canta
come su disco. Però io stasera l'ho capito di che pasta sono fatti i Fates
Warning: essi sono come quei ragazzi di cuore, buoni, intelligenti, a tratti
perfino brillanti e neppure brutti di cui sovente le ragazze si innamorano, ma
che, nonostante le ripetute suppliche da parte delle stesse, continuano a
vestirsi in tuta Diadora e mocassini, e a non spazzolarsi la forfora dalle
spalle.
Come secondo pezzo viene
subito sparata "Life in Still Water"
(direttamente dal masterpiece “Parallels”) che però, sentita dal vivo,
mi sembra "Operation: Mindcrime"
al rallentatore. Esprimo questo mi pensiero, ma nemmeno questa battuta
viene gradita dai miei compagni di metro quadrato. Con "One" (che non mi ha mai fatto
impazzire, ma stasera gira bene) accenno un po' di pogo, ma mi sembra di pogare
nel nulla. La sezione III di "A
Pleasant Shade of Gray" mi fa capire che cerco pateticamente di
emozionarmi, ma che non ci riesco. Con "Seven Stars" ne approfitto per prendere una birra, ma quando
torno sotto il palco non c'è più nessuno degli orsetti del cuore con cui avevo
condiviso la prima parte del concerto.
Si susseguono brani che non
riconosco ("SOS", "A Handful of Doubt" "Firefly"), ma che mi pare di aver
ascoltato migliaia di volte. Scusate se non mi soffermo sui dettagli, ma la melassa alderiana uniforma queste
canzoni fino a renderle un flusso assai omogeneo, privo di sussulti, dove però
si possono apprezzare quelle influenze tooliane
che hanno sedotto Matheos da un certo punto del suo percorso in poi.
Viene annunciato un altro
brano dell'ultimo album e io mi lascerò scappare un gemito di dolore, ma sono io il coglione, perché vivo di
riflessi automatici, non capendo che i pezzi nuovi valgono almeno quanto quelli
vecchi. Anzi, paradossalmente, i brani nuovi suonano meglio stasera,
probabilmente perché calibrati sul drumming
più "ordinario" di Bobby
Jarzonbeck (Mark, ma dove cazzo
sei?!?). Prontamente un tipo accanto a me approfitta della mia smorfia per
spiegarmi che invero quello appena annunciato è il miglior brano dei Fates
Warning. Attacca "The Light and the
Shade of Things" ed in effetti è tanta roba, forse il miglior momento
della serata, anche solo per il fatto che dura una decina di minuti e che nel
suo continuo saliscendi emotivo sa regalare qualche momento memorabile.
Ecco il clic!
Quando meno te lo aspetti, proprio come spesso mi succede negli album dei Fates
Warning, giunge il clic che ti fa rivalutare tutto. Nella sua prima metà un
album dei Fates Warning lo vivi con fare circospetto, come un fachiro
inginocchiato sul letto di spine che teme una retata della Guardia di Finanza.
Poi ad un certo punto scatta un clic e ogni cosa ti sembra diversa. La cosa
curiosa è che anche dal vivo si ha questa identica sensazione: questo clic che
ci schiude lo scrigno delle emozioni, come se le orecchie avessero bisogno di
abituarsi per distinguere quei suoni un po' sempre uguali a se stessi.
Siamo dunque in discesa, nel
senso che il cammino si fa più semplice, tanto che ci pare di correre a rotta
di collo verso il finale. E la cosa, a questo punto, un po' dispiace. Si entra
nel vivo dei "classici", con altre
due sezioni di "A Pleasant
Shade of Gray" (certo però non si capisce perché non abbiano un nome
proprio se poi vengono proposte come canzoni a se stanti). Fatto sta che avremo
la celeberrima parentesi acustica, con tanto di cambio di chitarra in corsa per
Matheos (per eseguire l’assolo) a rappresentare il momento di massimo dinamismo
della serata.
Poi un salto nel passato con
"The Ivory Gate Of Dreams: VII.
Acquiescence" (addirittura da "No Exit", l'album in cui esordì Alder dietro al microfono) ed
infine torna "Parallels" con "The Eleventh Hour" (altro momento top dell'esibizione) e "Points
of View", che rompe le ultime catene e sdogana un pubblico finalmente
saltante e cantante. Peccato che stia tutto per finire, ora che l'ambiente si
era scaldato a dovere: veloce uscita dal palco e poi altrettanto veloce rientro
con l'immancabile "Monument",
che, tolta la brillante fase strumentale al suo interno, continuo a pensare che
sia una canzone come tante altre dei Fates Warning, peraltro nemmeno la
migliore.
La band se ne va e, con grande
umiltà, stringe le mani ai fortunati in prime fila: un "gesto antico"
che avevo imparato a dimenticare e che apprezzo enormemente, soprattutto oggi, in
questa era glaciale che è l’epoca che stiamo vivendo.
A questo punto, però, ora che
le luci gialle si sono accese e la gente si avvia all'uscita, c'è da guardarsi
nelle palle degli occhi ed ammettere una scomoda verità: i Fates Warning non sono poi così fantastici dal vivo. Possiamo
anche ripetere per la milionesima volta che in un'altra location, con altri suoni, potevano rendere meglio. Ma sarebbe come
mentire a noi stessi. I Nostri apparentemente non hanno colpe, avendo suonato
da veri professionisti. Qui il discorso va ampliato, esteso oltre alla
dimensione live. Quel che non torna
nei Fates Warning è la stessa cosa che non torna nei loro album: l'essenza stessa dei Fates Warning, ossia
una monotonia di fondo che li tinge di grigio (per dirla à la Fates Warning, appunto), un grigiore che conferisce fascino,
ma che li rende anche un po' piatti.
Torniamo sul palcoscenico: non
pretendo che Adler si metta a saltare e a battere le mani, ma qualche
accorgimento in sede live va preso,
perché non basta limitarsi ad un best of
ben eseguito, quando non hai un repertorio da cui estrapolare un vero best of. E di certo non aiuta poggiare
tutte le attrattive sceniche sui gesti da “telenovela brasiliana” di Alder o
sulle impercettibili variazioni di inclinazione dei capelli di Matheos (una
colonna verticale di riccioli che sembrano fatti di cartapesta), piegato sul
suo strumento.
I Porcupine Tree, prima che Wilson
divenisse un fenomeno di massa,
potrebbero offrire qualche utile spunto. Anzitutto una scaletta flessibile che
muta drasticamente di tour in tour, andando a valorizzare di volta in
volta quello che la band è e si sente di essere in quella particolare fase
della carriera. Facendoti peraltro credere, a te pubblico, di assistere ad un
evento unico, con pochi classici a fare da contorno ad un nucleo emozionale (ed
emozionante) fatto di perle e rarità ripescate da chissà dove. E senza la paura
di cimentarsi nei brani più lunghi e complessi, magari per l'occasione
ulteriormente estesi tramite jam
ragionate, o sviluppi scritti appositamente per la dimensione live. E’ indubbiamente importante anche
sapersi porre nei confronti del pubblico in modo intimo senza risultare freddi
automi incollati agli strumenti: insomma, maggiore scioltezza e disinvoltura
anche nel tirarsela. Ma soprattutto, diviene determinante la capacità di creare
momenti di grande suggestione, climax che sappiano elevarsi dal resto e ti fanno
tornare a casa con la sensazione di aver visto, sentito, provato qualcosa.
Proprio quando non hai un
repertorio fatto di brani memorabili, ma di album memorabili, diviene doveroso disporre i tasselli del mosaico
in modo più accattivante. Che dirvi, cari
Fates Warning, comprate due sgabelli e fate tre pezzi acustici di fila;
oppure montate due luci un minimo più atmosferiche; o prendete un cazzo di
brano di dieci minuti ed allungate il brodo fino a farlo diventare di venti,
anche a costo di qualche sbavatura (che Matheos mi fulmini...).
Ma la cosa più ovvia, sarebbe
stata riprodurre "A Pleasant Shade
of Gray" per intero, visto che quest'anno festeggiamo venti anni tondi
tondi dall'uscita di quel capolavoro del prog-metal: una scelta quanto mai
vincente in un periodo in cui si tende a celebrare anche una scoreggia venuta
bene...