I 10 MIGLIORI ALBUM A.O.R.
CAPITOLO 3: FOREIGNER - "HEAD GAMES" (1979)
Se odiate l’AOR allora i
Foreigner saranno per voi la band “ideale” per rafforzare questo sentimento.
Se avete dei pregiudizi
sull’AOR, allora i Foreigner li confermeranno tutti, al 100%.
Se pensate che l’AOR sia
sinonimo solamente di copertine pacchiane, canzonette “usa e getta” da
tre/quattro minuti e sdolcinate ballate, allora i Foreigner saranno il sigillo
definitivo ai vostri stereotipi.
Se è vostro convincimento poi,
più in generale, che il successo commerciale della proposta musicale sia quasi sempre inversamente proporzionale alla qualità della stessa, allora girerete alla
larga dai Foreigner che possono vantare oltre 80 mln di dischi venduti in
carriera.
Ma soprattutto: se siete persone
che non si capacitano di come un brano come “I want to know how love is” abbia avuto l’abnorme successo che ha
avuto, entrando prepotentemente nell’immaginario collettivo come la canzone
d’amore rock per antonomasia…come sia stato possibile che l'autorevole rivista Rolling Stones
l’abbia inserita nelle migliori 500 canzoni di tutti i tempi…ecco, se non vi
siete mai capacitati di tutto ciò, allora non leggerete nemmeno il prosieguo di
questo post.
No, non saremo noi di Metal Mirror
a voler eliminare i pregiudizi sui Foreigner, visto che non siamo neppure fan
sfegatati della band anglo-americana.
Ma non siamo neppure così
accecati dai pregiudizi per non includere in una retrospettiva sull’AOR la band di
quel furbone di Mick Jones. Del
resto i Foreigner stanno all’AOR come i Poison stanno al Glam. Semplicemente, al
di là dei nostri gusti personali e non foss’altro che per onestà intellettuale,
non possiamo non parlarne…
E allora inseriamoli nella nostra Rassegna e sgombriamo subito il campo da ogni equivoco: se è vero che i
Foreigner saranno per sempre accostati a “I want to know…” è altrettanto vero che
non sono solo questi. Cioè quelli del mediocre “Agent provocateur” (1984). No, i “veri” Foreigner sono stati
soprattutto quelli dei primi tre album che culminarono proprio con il qui
presente “Head Games”.
Non che esso sia oggettivamente
il loro miglior full lenght. Chi scrive, ad esempio, gli preferisce il precedente “Double vision” (1978), in quanto più vario, con una scrittura più articolata ed una produzione meno patinata.
Ma, volenti o nolenti dobbiamo
considerare HG come apice della band,
e questo per almeno tre motivi. Primo: fu l’ultimo con la formazione migliore,
quella originale, che comprendeva l’ex King Crimson Ian McDonald alla chitarra
e l’ottimo Al Greenwood alle tastiere; secondo: è il disco con la miglior
produzione, merito del “guru” Roy Thomas
Baker, celebre per aver prodotto i primi quattro dischi dei Queen; e terzo
perché è il primo vero disco AOR dei
Foreigner. Dove troviamo espresse, al limite di una fastidiosa “nausea musicale”,
tutte le più canoniche caratteristiche dell’AOR. Se infatti fino a “Double vision” i Foreigner
erano ancora “a metà del guado”, tra la sponda dell’elaborata tradizione prog
rock settantiana (basti pensare a brani come la strumentale “Tramontane” o
l’ottima “Spellbinder”) e quella più linearmente rockeggiante, in HG i Nostri
decidono di lasciare da parte ogni “fronzolo” del passato per darsi a un sound
che, seppur “pulito” e sicuramente privo di pesanti asprezze hard n’ heavy,
riusciva ad essere più diretto e facilmente assimilabile.
Quello che riesce a fare la
differenza rispetto alle altre uscite coeve del periodo, sono comunque
l’ispirazione di Jones e soci che azzeccano le linee melodiche e i chorus di
praticamente tutti e dieci i pezzi che compongono il disco. Se HG avrà il
successo che avrà sarà sicuramente per brani più accessibili ed easy listening
(“Love on the telephone”, “Seventeen” o la beatlesiana “Do what you like”). Ma
in realtà la qualità del disco risiede soprattutto nei brani più “articolati”
(lo scrivo tra virgolette perché l’aggettivo è da intendersi in relazione al
genere: non stiamo parlando dei Van Der Graaf Generator…). Quando le linee di
chitarra di Jones e McDonald si intrecciano con quelle di tastiera di Greenwood
in modo ispirato e non prevedibile, e la bella e calda voce di Lou Gramm vi spazia sopra, escono fuori
brani da non sottovalutare sia negli episodi più duri (l’opener “Dirty white
boy” o l’ottima “I’ll get even with you”), che nei trascinanti mid tempos (la
title track, “The modern day”). In tutto questo menzione d’onore per l’atipica gemma
“Blinded by science”, brano più lungo del lotto e top-song del platter, che
risente ancora positivamente dei retaggi prog del passato.
Ecco, detto e considerato queste
poche righe, ora siamo tutti più tranquilli e possiamo continuare a sparare a
zero sull’AOR.
A cura di Morningrise