In uno dei primi, e probabilmente
più importanti, post che sono stati pubblicati su Metal Mirror, il nostro
Mementomori sviluppava una lucida analisi sul significato e sull’importanza di
“Reign in blood”, monolite misterioso dalla cui venerazione e contatto intere
generazioni di musicisti avrebbero sviluppato ulteriori forme di metallo
estremo (il death in particolare).
A riprova di tal fatto, si
prendevano in considerazione i grandi Obituary, nati, secondo la geniale
intuizione del collega, nell’esatto momento della fusione l’una nell’altra di
“Altars of sacrifice” e “Jesus saves”. Riprendiamo le sue illuminanti parole: E’ questo l’istante preciso in cui gli Obituary nascono, il punto esatto in
cui avviene il contatto fra il monolite e la zampaccia di scimmie pelose che,
incuriosite, si avvicinano ballonzolando all'oracolo. E’ in quel momento che Donald
Tardy riceve l’illuminazione e grida: “Ecco, cazzo, quello che voglio
suonare!".
Tutto questo mi è tornato alla
mente ascoltando quel grandissimo, e faticosissimo disco, che è “Times Of Grace” (1999), sesto album dei Neurosis e primo della serie con la decisiva collaborazione di Steve Albini in
fase di produzione. Posizionato tra due giganti, “Through silver in blood”
(1996) e “A sun that never set” (2001), sarebbe facile vedere TOG come un disco
“minore”, non foss’altro per essere
appunto un disco-ponte tra il glorioso passato post-hardcore e l’altrettanto
glorioso futuro post/folk metal. Non è così, come peraltro recentemente
abbiamo scritto in merito ad altri casi di dischi “ponte”. E’ anch’esso un
disco pauroso, enorme. Semplicemente per capirlo appieno, come tutta la discografia dei pionieri
californiani, va ascoltato e riascoltato molte volte, fino alla sua
metabolizzazione.
TOG contiene diversi brani
splendidi, ma oggi ci soffermiamo su “The last you’ll know” che a mio modo di
vedere rappresenta per gli Isis quello che per gli Obituary ha rappresentato
quella fusione tra i due pezzi degli Slayer di cui sopra. Il momento decisivo
in cui mi immagino che Aaron Turner, folgorato,
abbia urlato: “Siii, cazzo, è proprio questo che voglio suonare!”.
Il poliedrico musicista del New
Mexico non ci è arrivato subito. Ha dovuto affinarsi, fare un po’ di gavetta. E
“Celestial” (2000), primo full lenght degli Isis, è proprio questo: presa delle
misure, affinamento della proposta.
Già “Oceanic” (2002) invece è
piena maturità, consapevolezza, messa a fuoco del proprio stile. Che nasce dai
loro “padrini”, i Neurosis appunto (con i quali, non a caso, andarono in tour
proprio dopo aver rilasciato “Celestial”).
“The Last You’ll Know” è un brano
lungo, di oltre nove minuti, ma già nei
primi 10 secondi c’è tutta l’essenza che farà la fortuna degli Isis e
renderanno il loro sound immediatamente riconoscibile: riffone introduttivo,
seconda chitarra che vi si innesta con un melodico solo-riff, pattern di batteria che
segue il tutto dandoci dentro di piatti. Dopo 70” l’atmosfera si fa
parzialmente più rilassata (anche se il vocione compresso di Kelly ci martella
le meningi senza pietà) per uno sviluppo che è si sempre pesante come un
macigno ma che trova una forma di dolcezza, quasi di “quiete sotto la tempesta”
nelle linee della tastiera di Noah Landis. Se vogliamo anche la fase centrale, quasi
ambient, solcata soltanto dalla consueta, inquietante effettistica del solito Landis e da doomiche
pennellate di basso di Dave Edwardson, riporta alla mente soluzioni che gli Isis faranno proprie
(penso ad esempio a una canzone strumentale come “Altered course” da
“Panopticon”).
Ma senza stare ad analizzare tutti i 9 minuti di TLYK, bastano davvero quei 10
secondi iniziali per avere un immediato collegamento. Se infatti prendiamo le opening songs
degli Isis, “The beginning and the End” da “Oceanic”, o l’epica “So did we”
da Panopticon, ci accorgeremo che lo schema è esattamente quello di “The last
you’ll know”, negli intrecci delle linee di chitarra (sia nella parte
ritmica che portante) che nei patterns di batteria. Forse tutto in versione più
“pulita”, più pacata, più “fine”, meno primordiale (ma non meno tesa ed
emozionale). Il che del resto è un pò la differenza che potremmo riscontrare, a voler essere formali "etichettatori", tra il post-hardcore e il post-metal.
Non male comunque...10 secondi di "copulazione" con le idee dei propri mentori, ed ecco cosa è riuscito a partorire l'estro artistico di Turner&soci.
E anche noi, loro fan, a...godere dei risultati!
A cura di Morningrise