Cosa
strana: se penso agli Iced Earth mi viene voglia di ascoltarli, persino
di comprare un loro disco. Se poi li ascolto, la magia di colpo si dissolve:
non mi convivono, mi annoiano, mi richiedono uno sforzo eccessivo rispetto a
quello che mi danno.
Eppure
la band del buon Jon Schaffer ha tutte le carte in regola per piacere.
Si ha come l'impressione che in un loro album possa succedere di tutto, eppure,
sistematicamente, se si pone attenzione a quello che si ascolta, niente genera
vero entusiasmo.
In un loro album possiamo trovare potenza e melodia, riff rocciosi ed intriganti arpeggi, voci sporche e pulite, momenti di tastiere, persino sprazzi di cori ed orchestrazioni. Eppure, al termine dell'ascolto, si ha la sensazione che non sia accaduto nulla. E spesso, durante l'ascolto, può capitare di provare fatica, nonostante la proposta dei Nostri sia tutt'altro che complessa.
Gli
Iced Earth, con i loro album di elevato minutaggio, con i loro sontuosi concept che spaziano con disinvoltura
dalla Storia ai fumetti, rappresentano la grandiosità del metallo. La rappresentano però, questa
grandiosità, dipingendola sulla cartapesta, issandola su variopinti carri di
Carnevale: statue dozzinali che si muovono meccanicamente e che, in un circolo
senza fine, compiono la solita gamma di gesti. La speed-song che non fa prigionieri, la semi-ballad che alterna parti acustiche a poderosi mid-tempo, l'immancabile brano
colossale: un modo "totalizzante" di intendere il metal che è ben simboleggiato,
nelle forma come nella sostanza, dal mastodontico "Alive in Athens",
spropositato triplo album dal vivo dato alle stampe quando ancora la band aveva
licenziato appena cinque album in studio (viva la sintesi!).
Questa
approfondita conoscenza delle "regole di vita" del metal (in
studio come sul palco, dove i Nostri fra l’altro se la cavano piuttosto bene)
ha permesso alla band di ritagliarsi un ruolo di rilievo nel panorama metal
nella seconda metà degli anni novanta, senza però possedere uno dei
caratteri fondanti che ha reso il metal un genere a sé stante: la creatività.
Il
metal degli Iced Earth è metal da
catena di montaggio e Schaffer sembra un perito meccanico fordista che
crede ciecamente nella divisione del lavoro e nella rigida osservanza della
dottrina dei "Tempi e Metodi". Il Nostro del resto sfrutta (in buona
fede, s'intende) un'altra importante qualità del metal che è quella della sua replicabilità
(un esempio di ciò sono i Primal Fear che, a forza di copiare i Judas
Priest, sono arrivati a superarli, almeno nella loro versione senza Halford).
Per un po' il gioco funziona, ma poi ci si rende conto di una cosa: manca un'anima.
C'è
convinzione, dedizione, ma non c'è un'anima. Un po' di anima negli Iced Earth
l'aveva portata Matt Barlow, un cantante particolare, tutt'altro che
virtuoso, ma potente, versatile e...con un'anima. Se gli Iced Earth hanno
funzionato (ma anche questo andrebbe verificato), essi hanno funzionato nell'era Barlow, il quale, con la sicurezza del pompiere, li ha condotti
fra le insidie del metal post-ottantiano. Nessuno in quegli anni suonava come
loro, thrashettoni (mentre il thrash
classico precipitava negli abissi) ed al tempo stesso epici (mentre le sonorità
classiche tornavano in auge): a guardar bene, un buon punto di intersezione fra
un fenomeno discendente ed uno in ascesa. Una questione di tempismo, per questo
continuiamo a pensare che si tratti di un gruppo sopravvalutato, aiutato
dall'ondata restauratrice del power metal.
Quello
degli Iced Earth del loro periodo d'oro (1995 - 2001), del resto, è
stato un equilibrio precario, fragile, sempre sull'orlo di sgretolarsi: come
abbiamo già detto in occasione dell'analisi di "Dante's Inferno"
(e sì, ai Nostri non manca proprio l'ambizione), Schaffer e Barlow sembrano muoversi a braccetto con passo claudicante,
sorreggendosi a vicenda come il cieco e lo zoppo.
Ci
sono band che hanno fondato una carriera sui soli riff di chitarra, ma quelli di Schaffer non ce la fanno da soli a
reggere la baracca: qui abbiamo Schaffer che suona "Battery",
là c’è Schaffer che esegue "Harvester of Sorrow", ma alla fine
non risulta quasi mai davvero incisivo (forse
perché non conosce a fondo la grammatica del thrash metal?). Ma se si
guarda il lato power, un chitarrista che non sa cosa sia un assolo non è
proprio il massimo. Ci farà addormentare persino con i Demons & Wizards,
dove poteva contare sull'ugola di Hansi Kursch (del resto nemmeno
quest'ultimo al top dell'ispirazione
in quella circostanza). Ha reclutato musicisti dotati, chitarristi solisti con
una certa perizia, ma nemmeno quelli sono riusciti a risollevare la situazione.
Ad un certo punto è spuntato persino Richard Christy dietro alle pelli
(e la differenza si è sentita: del resto a noi piace tutto quello che ci
ricorda Chuck!), ma nemmeno lui è riuscito a rendere brillante una
musica che pare afflitta dal peccato peggiore di cui l'arte si possa macchiare:
la prevedibilità.
Schaffer
è sicuro di sé, è un discepolo diligente, crede fermamente nel metal, nel suo e
in quelli dei grandi classici (a cui guarda continuamente) e pensa che
mescolare Metallica, Iron Maiden e Judas Priest
(probabilmente i suoi gruppi preferiti) sia la ricetta perfetta. Ma lo rimane
solo in teoria se in fase di applicazione manca fantasia ed originalità, manca
estro, manca il guizzo di genio. E' come se gli Iced Earth fossero una
intersezione sbagliata, come se un attore volesse mettere insieme le
caratteristiche di Leonardo Di Caprio e di Alberto Sordi, ma
pescando per sbaglio la comicità del primo e il fascino del secondo, invece che
il contrario: qualcosa non funziona.
Passaggi
trascurabili che si susseguono ad altri passaggi trascurabili, il tutto accompagnato
da una sezione ritmica che va sempre o un pelino più veloce o un pelino più
lenta di come dovrebbero andare. Come se si dovesse a tutti i costi faticare,
come quando nel thrash duro degli anni ottanta ti dovevi sorbire tutte quelle
inutili pause prima che il tupa-tupa
ripartisse, come quanto eri piccolo e dovevi per forza finire quello che ti
mettevano nel piatto. In anni, per giunta, in cui il metal si faceva furbo.
Anche
la voce del "grande" Barlow, graffiante e con quel fare roco che fa
molto "rock alternativo americano" (una timbrica dunque che nella
seconda metà degli anni novanta ci stava come il cacio sui maccheroni), non
riesce mai a chiudere un ritornello come si deve: gira intorno alle cose senza
mai penetrare al cuore delle stesse. Ma forse questo tergiversare senza
trovare mai la quadratura del cerchio (anche negli episodi migliori) è
l'involontario carattere vincente della band: l'idea che stia per succedere
qualcosa che però molto poco spesso si realizza, quel solletico che hai nel
momento in cui ti accingi ad ascoltare un album degli Iced Earth e poi ...il legno.
Eccoci
al legno.
Vi
ricordate la definizione di "legnoso" che avevamo visto nella
anteprima? "...che manca di grazia o
di scioltezza, di agilità, rigido, impacciato: muoversi con passo legnoso,
avere i movimenti legnosi". Prendiamo uno dei migliori album degli
Iced Earth, "Something Wicked this Way Comes", prendiamo la
terza traccia "Disciples of the Lie", prendiamo il pezzo di
organo al suo interno e ditemi, signori
miei, se questo non è legno! Quelle doppia-cassa scontata, quel giro di
organo a tre dita eseguito con scioltezza matematica: non c'è bisogno di
scomodare Jon Lord e i Deep Purple (basterebbe pescare un
momento a caso di hammond, uno
qualsiasi) per rendersi conto quanto sono ingessati, legnosi i nostri Iced
Earth. Ma basta anche andare ad ascoltare la cover bolsa di “Transylvania” degli Iron per
comprendere quanto sono legnosi gli Iced Earth. Che alla fine, potremmo
concludere, sono il classico gruppo che va bene se si ascoltano mille altre
band, migliori e peggiori, perché il metal è una grande famiglia e molti
artisti acquisiscono senso, non in modo autonomo, ma solo come tasselli di un
mosaico più ampio.
Adesso
però qualcuno si potrebbe incazzare e dirci: oh, ma siete scemi? State parlando della band che è forse la migliore esponente
del power americano! Il fatto è che il sound degli Iced Earth è così scientifico che difficilmente
può essere criticabile, almeno per quanto riguarda il lato formale e
l'attitudine: hanno mai tradito il verbo
sacro del metal? Hanno mai fatto un album commerciale o tirato via? Sono mai
venuti meno ai loro impegni? Hanno mai rinnegato la loro visione artistica?
No, no, no e no! Allora cosa recriminare
loro? La mancanza di talento!
(vedi le altre puntate di "Legno")
(vedi le altre puntate di "Legno")