L'uscita dell'ultimo loro full-lenght "The Assassination of Julius Caesar" ci ha riportato alle
orecchie gli Ulver. In realtà non abbiamo
mai smesso di ascoltare gli Ulver, anzi, parliamo continuamente degli Ulver, un
po' perché i Lupi sono prolifici e
capita spesso di ascoltare qualcosa di nuovo da essi rilasciato, un po' perché
li seguiamo da sempre e con loro siamo praticamente invecchiati.
E se è sempre una buona
occasione per parlare degli Ulver, oggi vogliamo strafare ripercorrendo la loro storia con dieci brani. Non
necessariamente i più belli, né quelli più significativi: una playlist
da ascoltare tutta d'un fiato per rivivere lo spericolato viaggio dei Lupi che dal black metal delle origini li ha condotti ai lidi del pop più sofisticato...
"Capitel I - I Troldskog Faren Vild" ("Bergtatt - Et Eeventyr i 5 Capitler", 1995)
L’opera prima degli Ulver fu accolta come un gioiello luccicante in
un contesto in cui il black norvegese
si stava sviluppando e diramando in direzioni interessanti; solo
successivamente questo bellissimo album sarebbe divenuto una fonte di ispirazione
per coloro che sarebbero divenuti gli alfieri delle sonorità post applicate al black metal. Il primo di quei leggendari
cinque brani mette subito le cose in chiaro: voci pulite, melodie
struggenti e divagazioni folk al
servizio di un black metal che al contempo non intende rinunciare alla ruvidità
ed allo spirito più autenticamente "true". Vera marcia in più per
questo ensemble composto da musicisti
ispirati e tecnicamente sopra la media è la voce di Garm: in questo brano non ci imbatteremo in parti di screaming (espressivo anch'esso, come
avremo modo di sentire negli altri brani), ma solo in vocalità pulite che
traggono ispirazione dal folclore nordico. Le varie linee vocali si intersecano
ed accavallano in intrecci da brividi che trovano un terreno congeniale nei
tempi medi del brano (accelerazione finale permettendo) e nel dinamismo delle
soluzioni melodiche (fra cui un paio di assoli), tutte azzeccate e ben
disseminati in questi otto minuti di sublime
rarefazione sonora.
"Ulvsblakk" ("Kveldssanger", 1996)
Il secondo album degli Ulver fu già qualcosa di spiazzante, sebbene il
legame concettuale con il lavoro precedente fosse palese. Questo legame era il
folclore e tutti gli elementi folk
che avevano impreziosito e reso unico il black metal di "Bergtatt"
adesso venivano espressi al massimo del loro potenziale. Abbandonato
definitivamente il metal, gli Ulver si ripresentano sul mercato discografico in
veste totalmente acustica. In questo
caso ad essere la “voce” più
eloquente nel descriverci i contenuti di questo album è il mirabile brano di
chiusura, che con i suoi quasi sette minuti è anche l'episodio più lungo: un
viaggio nel cuore della foresta ("Ulvsblakk"
significa "Il colore del lupo"), di notte, fra solenni arpeggi di
chitarra, pagani colpi di tamburo e vocalità eteree (fra cui una autorevole
risata che eleva Garm, con il suo piglio teatrale, dall'anonimato
folcloristico). Una musica evocativa
che affonda le radici nella magia di un passato ancestrale, ma che al tempo
stesso getta un ponte verso quell'intimismo che si mostrerà compatibile con le
forme che il Lupo assumerà in
futuro...
"Proverbs of Hell - Plates
7-10" ("Themes from William Blake's The Marriage of Heaven and
Hell", 1998)
Saltiamo a piè pari il
temporaneo ritorno all'ovile del black metal con il ferocissimo "Nattens Madrigal" (volendo, un
altro bel colpo di scena) e passiamo al colpo
di scena per eccellenza. Questo stupefacente doppio-album (che abbiamo
avuto modo di celebrare nella nostra classifica dei migliori album-doppi nel metal) è quanto di più scioccante una band dedita all’Estremo abbia mai combinat: dal
black metal all'elettronica in un sol balzo! Rivoluzionata per metà la
formazione che aveva dato alle stampe la gloriosa "trilogia black", Kristoffer Rygg (liberatosi dal vecchio
soprannome Garm ed adottato per l'occasione l’appellativo di Trickster G.) si sceglie come compagno
di viaggio il sound-designer Tore Ylwizaker, e niente sarà più come
prima. In quello che è un flusso pantagruelico di suoni e parole (i testi, come
suggerito dal titolo, sono dei passaggi tratti dal poema di William Blake) scegliamo un episodio
fra i tanti validi, ma che mette ben a fuoco la mutazione dei Lupi: nove minuti
che mischiano senza troppi problemi atmosfere urban, hip-hop, metal e post-industrial. Ma l'azzardo più grande è l'idea di rivestire di
cruda metropolitanità i contenuti metafisici dei versi di un poeta romantico quale
è Blake. Come al solito, nella perfetta commistione fra pattern elettronici e stilemi metal che ancora sopravvivono
(nel groove delle ritmiche, nei riff taglienti della chitarra, in certi
suoi ricami solistici), la stella polare
rimane il canto poliedrico di Rygg che, abbandonato definitivamente lo screaming black, passa con disinvoltura da
distorcenti effetti vocali ad un canto pulito che sa essere passionale e sperimentale
al tempo stesso. Il fantasma de "La
Masquerade Infernale" (uscito l’anno precedente) degli Arcturus (di cui tre membri sono
presenti in questa incarnazione degli Ulver) aleggia in ogni dove, ma qua si va
davvero oltre: che la nuova Era abbia
inizio!
"Lost in Moments"
("Perdition City", 2000)
Se nel doppio-album appena
descritto una certa componente metal sopravviveva, con l'EP "Metamorphosis" l'approdo
all'elettronica era stato totale. E con il capolavoro "Perdition City" si ha il manifesto
del nuovo corso. L'iniziale "Lost
in Moments" è un brano praticamente strumentale che ci conduce nelle
fascinose atmosfere notturne di una metropoli alienante, fra fraseggi spezzati
di beat
elettronici e i volteggi di un sax
che si muove con gusto squisitamente noir.
In una breve parentesi Rygg si abbandona a vocalizzi incorporei che sanno di
avanguardia e che costituiranno la sua nuova dimensione: la voce intesa come
"suono astratto" e non come veicolo di un messaggio lirico. Il
contorno invece è ricco di suggestioni, dall’avvolgente piano jazzato che provvidenzialmente va a riempire i vuoti, al
massimalista finale operistico,
passando per i field-recording e gli svariati cambi di tempo. Una grande prova
di maturità che sa fugare ogni dubbio sulla bontà del cambio di rotta dei Lupi.
"Nowhere/Catastrophe"
("Perdition City", 2000)
Ci permettiamo di selezionare
un altro brano da "Perdition City" perché non potevano ignorare quel
brano che sarebbe divenuto poi un
classico (forse il classico per
eccellenza) degli Ulver: la conclusiva "Nowhere/Catastrophe", unico episodio propriamente cantato in
un album prevalentemente strumentale. Essa, che si muove a passo di trip-hop, presenta, rispetto agli altri
brani, una struttura più lineare: tutto il fascino del brano risiede semmai nel
canto di Rygg, il quale sfoggerà in lungo e in largo la sua capacità di
inanellare idee e preziosismi vocali avvincenti.
Concettualmente il brano si lega al resto dell’album grazie ad un bellissimo testo surreale che va ad
incarnare alla perfezione il senso di disorientamento che era stato reso dai
suoni delle composizioni precedenti.
"For the Love of God"
("Blood Inside", 2005)
Dopo una serie di EP tendenti
in maniera preoccupante al minimalismo, gli Ulver tornano con un full-lenght grondante di suoni e parole.
La buona notizia è che Rygg torna a cantare a tempo pieno; la cattiva e che non
sempre la musica convince. "Blood
Inside", tuttavia, segna una tacca importante nella carriera dei Lupi in quanto sancisce l'emancipazione
da certi cliché della "musica
colta" e il passaggio ad una forma
"totale" di espressione artistica che sa mettere insieme
"sacro" e "profano", recuperando persino certi stilemi del rock. Un bell'esempio di questo nuovo
approccio è "For the Love of God":
essa si attacca alla coda ambient del brano precedente e, introdotta da apocalittici
cori e solenni percussioni, porta con sè quei toni sacrali che si vanno a rispecchiare
nel drammatico testo. Cosa rara in casa Ulver, il brano presenta un formato canzone, dove la voce obliqua
di Rygg offre ancora una volta una prova di grande classe e personalità. Dissonanti sintetizzatori e ricami di chitarra elettrica (con tanto
di assolo nel finale) gettano ulteriore carne al fuoco. Nel brano, in
definitiva, rinveniamo quell'ambizione di voler coniugare la sensualità del pop
ad un autentico spirito progressivo: un connubio che troveremo spesso in futuro
nei lavori degli Ulver.
"Eos"
("Shadows of the Sun", 2007)
Con "Shadows of the Sun" si torna ai toni pacati degli Ulver più
ambient, ma lo si fa con rinnovata maturità e con una ispirazione che sa
mettere insieme, in modo miracoloso, cantautorato,
elettronica e musica da camera. Ogni tassello si incastona alla perfezione in
questo mosaico che predilige intimismo e sfumature: per questo motivo è davvero
difficile scegliere l'uno o l'altro episodio. Per comodità optiamo per
l'intensa opener, riproposta dai
Nostri di tanto in tanto dal vivo. Priva dell'elemento ritmico, essa si muove
fra struggenti tastiere e carezze di archi, mentre Rygg, a metà strada fra new wave e canto gregoriano, si erge ad etereo
sacerdote di un rito che porta con sé gli umori funerei di un requiem.
"February MMX"
("Wars of the Roses", 2011)
Sebbene "Wars of the Roses" vorrebbe
bissare (ma senza riuscirci) certe mosse del pacato predecessore, la nostra
scelta ricade sul movimentato brano di
apertura (di cui fra l'altro abbiamo già avuto modo di parlare nella nostra
rassegna sui dodici mesi dell’anno). L'andamento è pop come mai gli Ulver erano stati, ma, come è noto, quanto i
Nostri accelerano il passo, sembrano voler recuperare quel dinamismo che possedevano ai tempi in cui suonavano metal. Solo che
adesso, al posto di un drumming
imperioso e riff di chitarra che si
intrecciano in sublimi melodie, abbiamo un bel piano jazzato e fiumi di
sintetizzatori che percorrono in lungo in largo il brano, il quale si muove
con passo scoppiettante grazie all'apporto di un batterista in carne ed ossa.
Rygg, invece, senza perdere un pelo della sua voglia di salire e scendere in
vocalità astratte ed oblique, sfodera in tutta la sua forza quell'epicità a
cui, fra i solchi dell'avanguardia, non ha mai rinunciato.
"Son of a Man"
("Messe I.X-VI.X”, 2013)
Dopo una imprevista escursione
nel mondo degli anni sessanta (la raccolta di cover "Childhood's End",
che ci ha consegnato i Lupi
nell'insolita veste del rock psichedelico – ottimi, detto per inciso, anche in
questo frangente), i Nostri ripongono nuovamente in soffitta chitarre e
batteria, per riconsacrarsi al verbo dei sintetizzatori: la Messa
dei Lupi è un viaggio spirituale
fra kraut-rock, ambient e musica classica
che, come suggerito dal titolo, si tinge più che mai di Sacro. Altro album dalla vocazione prevalentemente strumentale,
offre comunque due brani cantati, fra i quali operiamo la nostra scelta: la
monumentale "Son of a Man".
Potremmo definirla una ballata
orchestrale, ma a guardar meglio ci renderemo conto che si tratta di molto
di più. Nei suoi otto minuti e passa di durata ci mostra Rygg in uno dei suoi
crescendo più riusciti: dalle parole recitate sommessamente all'inizio, fino
all'arrampicata emotiva che lo vede ancora una volta, incalzato dagli archi,
incarnare quell'epicità, tinteggiata di enfasi teatrale, già palesata ai tempi
de "La Masquerade Infernale".
La coda strumentale a base di pompose orchestrazioni e manipolazioni
elettroniche è gloria che si aggiunge
alla gloria.
"Nemoralia"
("The Assassination of Julius Caesar", 2017)
Eccoci dunque alla fine del
nostro viaggio, che non coincide affatto con una "chiusura del
cerchio", in quanto il più recente album degli Ulver, più che un punto di
approdo, appare l'ennesima svolta non preventivata di un percorso che si è
svolto per tappe "concettuali" piuttosto che per un'evoluzione
artistica vera e propria. Resta fermo il fatto che sembra impossibile che gli
Ulver di "Nattens Madrigal"
e quelli di “The Assassination of Julius
Caesar” siano la stessa band. Il collage
di passaggi concertistici che era stato “ATGCLVLSSCAP”,
rimescolando le carte, aveva comunque riaffermato l'arte ulveriana come un maelstrom
che all'ambient ed all'elettronica sapeva abbinare il post-rock e la
psichedelia. Da queste fucine sembra scaturire, ripulito da tutte le scorie di
rumore, quel gioiello pop che
risponde al nome di "Nemoralia".
Qui si parla il linguaggio del synth pop
ottantiano (laccato a dovere dalla bella produzione di Martin "Youth" Glover): la semplicità del brano è
tuttavia compensata da linee melodiche azzeccate, preziosismi elettronici, un
testo geniale che sa accostare i riferimenti storici più azzardati e la solita
intelligente performance dietro al
microfono di Rygg, che si muove con grande disinvoltura fra vocalizzi sensuali
e falsetti patafisici.
Terminato l’ascolto di questi
dieci brani che sembrano composti da almeno tre o quattro band diverse, si
affaccia sulle nostre coscienze un unico quesito: quale sarà la prossima
imprevedibile mossa degli Ulver?