I 10 MIGLIORI ALBUM A.O.R.
CAPITOLO 10: GIANT - "LAST OF THE RUNAWAYS" (1989)
Una schitarrata affilata, con
tanto di assolo legato, ci accoglie…seguono discrete tastiere cristalline…la
tensione cresce, l’attesa dell’ascoltatore freme…e poi via! Il GO! di Dann Huff
apre le danze su una strofa pacata ma che lascia percepire un ribollire
sottotraccia…ribollire che poi sfocia nel catartico chorus…You know that I’m a
believer!
Siamo all’ultimo (o forse no?)
capitolo della nostra Rassegna sui 10 migliori album AOR. Siamo arrivati a fine
anni ottanta…il grunge è alle porte, la crisi per il mondo luccicoso e patinato
del glam e dell’AOR sta arrivando. Ma non è ancora la fine per questo
format/genere…c’è ancora una grande carta da giocare…la carta del Gigante!
I Giant rappresentano una
particolarità nel panorama rock degli anni ottanta perché di fatto sono un
insieme di turnisti, una sorta di alleanza di session men. Il leader del progetto è infatti il succitato Dann Huff, session guitarist
“utilizzato” da una caterva di cantanti di successo planetario di diversa
estrazione musicale (da Michael Jackson a Doro Pesch, da Barbra Streisand a
Whitney Houston). Accanto a lui, nel ruolo di batterista, il fratello David, altro turnista di livello. E poi il
grande Alan Pasqua (già fido
collaboratore di Allan Holdsworth), session keyboardist che è ha girato i
palchi di tutto il mondo affianco a star assolute come Bob Dylan, Michael
Bublè, Cher, Santana e mille altri. Manca il basso…anche qui, manco a dirlo, un
session di extra-lusso, Mike
Brignardello che ha suonato con centinaia (no…non esagero: centinaia!) di
super-artisti, dai Lynyrd Skynyrd in su…
I Giant, attualmente viventi
perché resuscitati all’inizio del millennio, hanno avuto una prima vita brevissima.
Cinque anni scarsi, durante i quali però lasciarono un segno indelebile nell’AOR.
Il motivo di questa breve esistenza probabilmente risiede proprio nella loro natura, cioè quella di musicisti dotatissimi ma girovaghi. Del resto le alleanze sono costituite per poi essere sciolte...
Comunque pochi cazzi: se
pensavate che l’AOR fosse roba solo per mammolette, e la nostra panoramica
ancora non vi avesse convinto che anche un metalhead può avvicinarsi a queste
sonorità, confidiamo che “Last Of The Runaways”
possa farvi ricredere (per la verità assieme agli ultimi due capitoli della
nostra Rassegna, dove avevamo messo in luce la parte più “nerboruta” e
“hard-oriented” del genere). Ma per comprendere appieno questo lato più “heavy”
dell’AOR bisogna passare obbligatoriamente da questo disco, che potremmo etichettare hard n’ groove (orrenda
definizione, lo so…) per la sua capacità di farvi dimenare le chiappe dall’inizio
alla fine dei 55’ e passa di durata.
Si, 55 minuti: un dato non
trascurabile della “diversità” dei Giant rispetto alla massa delle band AOR
riguarda anche la lunghezza di LOTR. Se tutti gli album che abbiamo trattato
finora si assestavano su un total running time tra i 38 e i 45 minuti, qua
sforiamo i 55. Non è un caso, vi assicuro. Perché i pezzi sono mediamente più
strutturati, con arrangiamenti curati e “ricchi”, che portano a non avere brani
“mordi e fuggi”, atti “solo” a bucare la programmazione radiofonica rimanendo
dentro i canonici 3 minuti e mezzo/4 minuti.
Di “I’m a believer” abbiamo già
detto, ma se a questa sommiamo le seguenti “Innocent days”, la ribollente “I
cant’ get close enough” e la splendida ballad “I’ll see you in my dreams” ci
ritroviamo davanti a un quadrilatero di pregio dove i Nostri mescolano classe,
gusto e potenza rock.
E il disco prosegue senza
cedimenti e senza filler, quasi una sorta di greatest hits, dove attitudine
selvaggia & raffinata classe, soluzioni melodiche & elettricità
affilata sanno andare a braccetto, creando un unicum ispiratissimo. E dotato,
come accennato sopra, di un groove sempre presente tra ammiccamenti funky (“No
way out”), cazzute ballad elettrificate (“It takes two”), cori anthemici da
cantare a squarciagola (idealtipico quello di “Hold back the night”) e brani
dall’impostazione progressiva (“Stranger to me”). LOTR mette in riga per tutte
queste ragioni la maggior parte della concorrenza diventando subito un disco
con cui fare obbligatoriamente i conti.
Talmente bello e importante che
il successivo, buonissimo, “Time to burn” del 1992 sembrò un dischetto trascurabile. E non a caso fu il canto del cigno dei Giant (almeno fino alla
poco interessante reunion di cui sopra).
Ma l’AOR non finì ovviamente nel
1989. Al di là della crisi alle porte, e delle migliori cartucce ormai già "sparate" nei 15 anni
precedenti, anche gli anni novanta vedranno diversi gruppi capaci di raccogliere quest'eredità
rock.
Ma,
con la sintesi che ci è propria, sarà con grande piacere far rappresentare
tutti i figliocci di Boston&co da un’unica band nata nei nineties…stiamo
parlando dei…
A cura di Morningrise