Ogni album dei Death ha descritto una particolare fase
di un percorso che, unico nel metal, ha
rappresentato il fruttuoso equilibrio fra evoluzione
e conservazione: una progressione ragionata che ha
rispecchiato la crescita dell’artista Chuck
Schuldiner senza stravolgerne i caratteristici tratti identitari.
Unico
nel metal perché questo percorso è stato animato da una costante ricerca
volta a sviluppare uno stile originale che se in un primo momento è stato
copiosamente imitato, successivamente si è fatto cammino solitario indirizzato
ad integrare arte ed artista in ogni singola
nota. Una parabola che dal death metal
ha condotto ad un qualcos’altro che a
noi piace chiamare semplicemente “arte schuldineriana”: un amalgama di
note, parole e dinamiche che è divenuto un unicum indistinguibile di cuore, mente,
mani e voce del suo artefice.
La scomparsa prematura del leader dei Death ha interrotto un
percorso virtuoso che avrebbe potuto dire molto altro ancora. Oppure no, chi lo
sa: probabilmente, come successo anche ai migliori, con il trascorrere degli
anni si sarebbe presentata una fisiologica fase di calo, nessuno può saperlo. Quello
che è certo è che finché è stato su questa terra il buon Chuck non ha sbagliato un
colpo. Questa sorta di infallibilità
è derivata in gran parte da un rigoroso modus
operandi basato su una ferrea aderenza alla propria visione artistica e sulla
volontà di migliorarsi continuamente. Un tale metodo, in un certo senso, ha
anche imposto delle rigidità e c’è sicuramente chi non ha apprezzato fino in
fondo il risultato finale. I brani (salvo i rari episodi strumentali) hanno
sempre mantenuto la stessa struttura e così, varcato il momento dell’assolo centrale,
c’era ogni volta da rassegnarsi alla pedissequa ripetizione della prima parte del brano, salvo
poi sperare in qualche variazione in coda. La tanto decantata evoluzione,
inoltre, è stata compiuta gradualmente, senza che le regole del gioco venissero mai stravolte. E tutto questo insieme di cose, indubbiamente,
ha portato con sé un certo grado di prevedibilità.
Non facciamo infine fatica a credere che molti appassionati di death metal avranno
trovato oziosi molti passaggi dei Death della maturità. Vi erano infatti caratteristiche intrinseche del processo creativo che hanno in un certo senso ingessato il sound della band: anzitutto una scrittura cerebrale e poco incline a concedere spazio all’improvvisazione. Ma anche l'esclusione a priori della jam intesa come luogo ove tutti i componenti della band potessero in simultanea fornire un contributo: tutto questo, ovviamente, marciava nella
direzione opposta ai gusti di chi invece richiedeva scorrevolezza e fluidità.
Eppure, una volta entrati nel
mondo di questo grande interprete del Metallo,
è facile constatare come ogni singolo album incarni una sua intrinseca
perfezione, costituendo il massimo che ogni volta la band poteva dare. “Scream Bloody Gore” (1987) e “Leprosy” (1988) gettarono le basi
stilistiche di un nuovo genere, il death
metal, che proprio dai Death prendeva il nome. I suoni erano violenti ed
enfatizzati, ma dietro di essi già operavano una mano sapiente ed una mente
lucida che manifestava la volontà di intraprendere una direzione personale,
disancorandosi dalle lezioni di quegli Slayer
che nella seconda metà degli anni ottanta dettavano legge in materia di
metal estremo.
Con “Spiritual Healing” (1990) a gettare un ponte verso un approccio più
complesso sia in sede di scrittura che di esecuzione, i Death approdarono ai
lidi del technical death metal con
capolavori ineguagliabili come “Human”
(1991) ed “Individual Thought Patterns”
(1993). Anche i testi, come i temi ritratti in copertina, si portavano ad un
livello di maggiore profondità: dalle visioni mostruose e sanguinarie degli
esordi (visioni che in realtà erano già dal principio metafore per descrivere la
realtà sociale) si progrediva verso acute e spesso ciniche analisi sociologiche.
Con “Symbolic” (1995) si apre una terza ed ultima fase che “The Sound of Perseverance” (1998) porterà
avanti con convinzione: le liriche si ammantavano di suggestioni filosofiche ed
esistenzialiste, mentre il sound si
faceva sempre più raffinato, tanto da portarsi fuori dai canoni classici del
death metal. Un procedere in avanti che di traverso guardava anche in dietro, recuperando gli stilemi del metal classico: intento che poi si sarebbe
realizzato in modo compiuto con l’album “The
Fragile Art of Existence” (1999), rilasciato dai Control Denied, ma degno e coerente continuatore della crociata
artistica di Chuck Schuldiner, che nel frattempo combatteva contro quel male
che l’avrebbe poi condotto, di lì a poco, al termine del suo viaggio su questo
mondo.
Commovente è
stato questo ultimo tratto di strada percorso a fianco dello spettro della
morte: per questo la musica dell’ultimo Schuldiner, già di per sé
complessa e stratificata, si è impregnata di significati ulteriori,
ammantandosi di malinconia, amarezza, disperazione, ma anche di forza,
determinazione e voglia di continuare ad agire nonostante tutto stesse svanendo: la fragile arte dell'esistenza. Ripercorriamo insieme questi ultimi
passi.
“Symbolic”
(1995)
Dei musicisti che avevano contribuito alla gestazione di “Individual Thought
Patterns” la spunta solo il maestro
Gene Hoglan, il quale avrebbe fornito
la sua miglior prestazione di sempre. Il suo drumming intricato raggiunge qui vette di virtuosismo inaudite, ma
quello che genera stupore più di ogni altra cosa è constatare come ogni colpo
di bacchetta, ogni singolo tintinnar di piatti, ogni clamoroso cambio di tempo sia
funzionale a supportare la crescita di Schuldiner, sia come autore che come
interprete ed esecutore. Il suo stile chitarristico progredisce ulteriormente
plasmandosi in un riffing sempre più
fantasioso e perseguendo una ricerca melodica che fiorisce in assoli
superlativi (inseriti in ogni dove) e soluzioni inedite: effetti, riverberi, delay, giochi di volume, pizzicati di
chitarra classica si accompagnano ai minacciosi pulm-muting, ai tapping vorticosi, alla tecnica del legato ed alle proverbiali scale (quella
minore armonica in primis). Il growl si
inasprisce affilandosi in un uno screaming
tagliente: medium ideale per supportare una visione spietatamente cinica della
società e delle relazioni interpersonali. Le composizioni, parimenti, si fanno
sempre più complesse e ricche di sfaccettature: se negli album appena
precedenti la durata dei brani si concentrava fra i tre e i quattro minuti, in
“Symbolic” le tracce si muovono mediamente fra i cinque e i sei, con picchi di otto
minuti, denotando un modo di procedere più ragionato e per certi aspetti
progressivo. Quanto al resto della band, l’operato alle quattro corde del discreto Kelly
Conlon non è ovviamente all’altezza di quanto fatto in passato dall’inarrivabile
Steve DiGiorgio, mentre la chitarra
di Bobby Koelble si ritaglierà solo
qualche sporadico momento solistico. Questi, tuttavia, sono dettagli irrilevanti se
messi accanto al raggiungimento di una maturità artistica che sa portarsi oltre
i cliché del death metal per divenire
pura espressione di talento, al di fuori di ogni possibilità di catalogazione.
“The
Sound of Perseverance” (1988)
Sciolti dopo il tour promozionale di “Symbolic”, i Death
si riformano per dare alla luce quello che rimarrà il loro ultimo album. La
formazione, come da copione, viene ancora una volta rivoluzionata e per l’occasione
vengono impiegati i musicisti che erano stati reclutati per dare vita ai Control Denied, il nuovo progetto di
Schuldiner, il quale aveva espresso il desiderio di orientarsi verso sonorità più classiche:
rispondono così all’appello Shannon Hamm
(chitarra), Scott Clendenin (basso)
e Richard Christy (batteria), tutti
mostruosi ai rispettivi strumenti. In particolare Christy, batterista straordinariamente
dinamico e dotato di immane potenza, riuscirà nell’impresa incredibile di non
far rimpiangere la dipartita del veterano Gene Hoglan, in compagnia del quale
il nuovo sound dei Death era stato sviluppato.
Le influenze del metal classico si sentono, ma esse si fondono, senza
disturbare, alla sempre più pronunciata vocazione melodica di Schuldiner. In
una sorta di percorso a ritroso condotto verso le sue origini, il chitarrista decide
di lasciar affiorare con maggior libertà l’amore/devozione per quelle band con
cui si formò in gioventù: questo avverrà senza strappi, in modo naturale, cosicché
a tutti risulterà finalmente chiaro da dove era originato quel linguaggio così
rivoluzionario che aveva fatto scuola in campo estremo. Ogni nota di “The Sound of Perseverance” trasuda
passione. Ogni sillaba (scandita con ferocia chirurgica attraverso smorfie
digrignanti non più riconducibili all’antico growl) è letteralmente una rasoiata esistenziale e si incastra alla perfezione fra riff e trame melodiche. Ogni passaggio, in definitiva, è pregno di
quella poetica pragmatica che ha
animato, fra ragione e sentimento, l’opera omnia di Chuck Schuldiner, infaticabile promotore del suono della perseveranza, vivida espressione artistica di una necessità di agire nonostante la caduta di ogni illusione. La priestiana “Painkiller”, inserita come bonus-track,
viene degnamente interpretata dalla band (emozionante e schuldineriano fino al midollo l’assolo) con un Chuck inedito dietro al microfono che
tenta strade prossime al canto pulito: citiamo questo episodio atipico perché
esso costituisce il ponte verso quei Control Denied che, in modo definitivo,
sposeranno la causa del metal tradizionale.
“The Fragile Art of
Existence” (1999)
Il titolo è eloquente nell’introdurre
quelle che sono state le ossessioni che hanno impregnato l’ultimo periodo di
vita dell’artista. Nel maggio del 1999 la malattia che avrebbe condotto il
Nostro alla morte aveva iniziato a manifestarsi e “The Fragile Art of Existence”, pubblicato a fine anno, si consegna
alle nostre orecchie come il testamento artistico
di Chuck Schuldiner. L’album presenta una formazione simile a quella presente
su “The Sound of Perseverance”, fatta
eccezione per il ritorno dell’amico Steve DiGiorgio al basso e per l’innesto del cantante Tim Aymar, chiamato a dispensare dal canto lo stesso Schuldiner che
aveva espresso a più riprese la sua inadeguatezza dietro al microfono. I brani vennero
scritti pensando a Rob Halford e vi
furono persino dei contatti con l’amico Warrel
Dane, il quale dovette declinare la succulenta offerta in quanto impegnato in un tour con i suoi Nevermore. Aymar, da parte sua, si rivelerà tutt’altro che un
ripiego, presentando peraltro uno stile vocale molto simile a quello di Dane. Nonostante
l’album si scolleghi definitivamente dall’universo estremo in cui il sound dei Death si era forgiato, esso
suona esattamente come un album dei Death: riffing,
assoli, trame melodiche, struttura dei brani, songwriting, tutto evoca l’ultima fase dei Death. Persino le
vocalità pulite del versatile Aymar, il suo modo di scandire le parole, di
recitare i testi ricordano a tratti il modo di cantare di Schuldiner. “The Fragile Art
of Existence” è ben più che il classico album power metal della seconda metà degli anni novanta. Esso si
distingue per i suoni rocciosi e la potenza delle ritmiche, le quali rinvigoriscono
una intensa ricerca melodica; i brani, inoltre, presentano strutture dinamiche e risultano continuamente
illuminati da funambolismi che vengono profusi a tutti i livelli grazie all’altissimo
tasso tecnico dei musicisti; l'album, nel complesso, portava con sé un reale e sincero mood malinconico conferito dal periodo di travaglio esistenziale
vissuto da chi aveva scritto musiche e testi. Ma soprattutto "The Fragile Art of Existence" suonava unico per via dello stile inconfondibile di Chuck Schuldiner, inesauribile fonte
creatrice che sovrasta i generi (death, thrash, power, prog ecc.), finendoli per trascendere.
“The Fragile Art of Existence”
è una istantanea che immortala per sempre l’arte
schuldineriana nel suo ennesimo momento di perfezione, sospendendo in
eterno una ricerca stilistica che ha finito per coincidere con quell'arte fragile che è l'esistenza.
Bello
ricordarti così, Chuck!
Playlist
essenziale:
1) “Symbolic” (“Symbolic”)
2) “Empty Words” (“Symbolic”)
3) “Crystal Mountain” (“Symbolic”)
4) “Spirit Crusher” (“The Sound of Perseverance”)
5) “Flesh and the Power It Holds” (“The Sound of
Perseverance”)
6) “Voice of the Soul” (“The Sound of Perseverance”)
7) “Painkiller” (Judas Priest cover, bonus-track in
“The Sound of Perseverance”)
8) “Consumed” (“The Fragile Art of Existence”)
9) “Expect the Unexpected” (“The Fragile Art of
Existence”)
10) “The Fragile Art of Existence” (“The Fragile Art
of Existence”)